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FARMACOLOGIA E PSICOTERAPIA: UN MODELLO DI INTERVENTO INTEGRATO

30/11/2020 23:06

Dr.ssa Gaia Guggeri

Terapia integrata: farmaci e psicoterapia, farmaci, psicoterapia, Terapia integrata,

FARMACOLOGIA E PSICOTERAPIA: UN MODELLO DI INTERVENTO INTEGRATO

Diverse evidenze cliniche hanno dimostrato che l'intervento integrato farmacologico e psicologico offre, in molti e selezionati casi, vantaggi maggiori rispetto

La


patologia depressiva è un fenomeno complesso e, di conseguenza, gli approcci


terapeutici a questo disturbo devono tenere presente tale complessità per


migliorare la loro efficacia. Ciò è possibile attuando interventi che prendano


in esame i molteplici piani che costituiscono l’individuo e che vengono


compromessi dalla depressione: quello sintomatologico, somatico, intrapsichico,


relazionale e sociale. Poiché l’impatto del disturbo psichico sull’equilibrio


dell’individuo avviene contemporaneamente su più livelli, questi devono essere


considerati come interdipendenti e non isolati tra loro. Inoltre, fra gli


obiettivi terapeutici, oltre alla remissione dei sintomi e ad un miglioramento


della qualità della vita dei pazienti, deve essere tenuta presente la


possibilità di influire sulle variabili che consentono di evitare, o per lo


meno di ridurre, le eventuali ricadute future.


Inoltre, sebbene sia stato


dimostrato che i farmaci siano in grado, da soli, di funzionare come sostituto


e riparatore biochimico delle carenze o degli eccessi del disturbo


psichiatrico, oggi è comprovato che la psicoterapia introduca cambiamenti


funzionali e strutturali del cervello che sono in rapporto con cambiamenti


nell’espressività di geni specifici (Kandel, 1983) e contribuisca ad aumentare


la compliance farmacologica, favorendo la continuità e la corretta assunzione


dei farmaci (Bellino et al., 2002). A sostegno dell’ipotesi che considera


l’esistenza di un doppio canale attraverso il quale agirebbero le diverse


modalità terapeutiche, rispettivamente gli interventi farmacologici e


psicoterapeutici, si aggiungono i risultati di uno studio di Goldapple et al.


(2004). Questa ricerca ha comparato, con l’utilizzo della tomografia ad emissione


di positroni (PET), le modificazioni nell’attività cerebrale di soggetti


depressi al termine di un trattamento farmacologico a base di paroxetina


rispetto a pazienti depressi trattati con una terapia cognitivo-comportamentale


per un ciclo di 15-20 sedute. E’ stato dimostrato che entrambi i trattamenti


provocano dei cambiamenti dell’attività cerebrale tali da ridurre la patologia


depressiva. Nello specifico, al termine dei trattamenti, si assisterebbe ad un


aumento dell’attività della regione limbica e della corteccia frontale. Ma


l’aspetto di maggior interesse evidenziato dalla ricerca riguarda il diverso


percorso seguito dai trattamenti nel raggiungere tale risultato: la


psicoterapia seguirebbe un percorso dall’alto verso il basso (top-down) aumentando


il metabolismo dell’ippocampo e del cingolo dorsale e diminuendo l’attività


della corteccia dorsale, mediana e ventrale. Tali cambiamenti sarebbero in


grado di modificare meccanismi come quelli della memoria e dell’attenzione che,


nel caso siano caratterizzati da errori (bias) affettivi e cognitivi, provocano


l’emergere ed il permanere della depressione. Diversamente, la paroxetina


seguirebbe un percorso dal basso verso l’alto (bottom-up), modificando


direttamente lo stato biochimico del cervello, aumentando il metabolismo


dell’area prefrontale e diminuendo quello dell’ippocampo e di altre aree,


agendo così sulle aree legate alle emozioni fondamentali ad ai ritmi


circadiani. Gli Autori concludono indicando, quale fattore fondamentale e


critico per la remissione della malattia, la possibilità di una terapia


integrata in grado di produrre una modulazione complessiva del sistema


descritto piuttosto che un cambiamento nell’attività di una singola regione


cerebrale.


Come visto prima, il trattamento


farmacologico con antidepressivi è di provata efficacia nel risolvere gli


episodi acuti e nel prevenire ricadute fino a quando viene mantenuto. Tuttavia,


numerosi studi di follow-up, condotti su un totale di oltre 3000


pazienti con depressione maggiore, hanno mostrato che la percentuale di


ricadute dopo la sospensione è molto elevata (superiore al 40% in un anno).


Inoltre, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, la frequenza delle


ricadute dopo la sospensione non dipende dalla durata del trattamento, né dalla


gradualità della sospensione. L’assunzione a tempo indeterminato di farmaci


antidepressivi non appare una soluzione ottimale, mentre la strategia di


sospendere periodicamente il trattamento farmacologico per brevi periodi


comporta invece il rischio dell’instaurarsi di una resistenza al trattamento.  Una possibile soluzione al problema è


l’associazione di una psicoterapia.


Alcuni studi controllati


randomizzati hanno mostrato che la combinazione di psicoterapia e trattamento


farmacologico è efficace nel ridurre il tasso di ricaduta, anche a distanza di


anni dal termine del trattamento. Per quel che riguarda l’effetto neurobiologico della


psicoterapia cognitivo-comportamentale sulla depressione maggiore, oltre al già


citato studio di Goldapple e colleghi che ha evidenziato alcune differenze


nella modulazione dei circuiti cortico-limbici in pazienti depressi trattati


con paroxetina o con psicoterapia (Goldapple K et al., 2004), più recentemente,


Kennedy e collaboratori hanno approfondito ed evidenziato in modo più


specifico, tali differenze. E’ stata condotta una valutazione PET su pazienti


con depressione maggiore sottoposti a trattamento con venlafaxina o con


psicoterapia cognitivo-comportamentale (Kennedy S et al., 2007). Dai risultati


di questo studio è emerso che la risposta clinica a ciascuno dei due


trattamenti era associata a una diminuzione del metabolismo a livello della


corteccia temporale di destra. Alcune modificazioni del metabolismo, però,


differenziavano i soggetti che rispondevano alla psicoterapia rispetto a quelli


che rispondevano alla terapia farmacologica. Infatti, i pazienti per i quali la


psicoterapia era efficace, presentavano una modulazione maggiore delle


connessioni cortico-limbiche con modificazioni metaboliche a livello della


corteccia del giro del cingolo, un dato che non era mai stato riportato in


precedenza.


  L’applicazione


del neuroimaging per valutare gli effetti neurobiologici degli interventi


terapeutici



 Le neuroscienze insegnano che mente e cervello


sono in relazione dinamica. Questo con­cetto è stato approfondito da Kandel


(2005), il quale sostiene che si dovrebbe pensare alla relazione tra mente e


cervello facendo riferimento a cinque principi fondamentali:


1.                


Tutti i processi mentali derivano da operazioni


cerebrali;


2.                


I geni e le loro possibili combinazioni sono


determinanti importanti dello sviluppo e del funzionamento dei neuroni e delle


loro interconnessioni;


3.                


Il comportamento può modificare l’espressione


dei geni;


4.                


Le modificazioni dell’espressione genica possono


portare a modificazioni delle connes­sioni neuronali;


5.                


Se gli interventi terapeutici non biologici (ad


esempio, le psicoterapie) determinano modificazioni del comportamento, è


verosimile che lo facciano attraverso la modifica­zione dell’espressione genica


e dell’efficacia delle connessioni tra i neuroni.


 Gli avanzamenti nello studio dei meccanismi


alla base del dialogo mente-cervello e di come l’esperienza possa modificare la


struttura ed il funzionamento cerebrale, hanno creato molte attese sulla


possibilità di approfondire e visualizzare gli equivalenti neurobiologici del


cambiamento clinico che si osserva a seguito di interventi terapeutici non


biologici, quali le psicoterapie o la riabilitazione neuropsicologica. Negli


ultimi anni sono stati condotti anche diversi studi che hanno indagato come


alcune tecniche psicoterapiche possono avere effetto sull’attività delle


diverse aree cerebrali, un effetto che corrisponde al miglioramento clinico e


che, in alcuni casi, è diverso dall’effetto che possono avere interventi di


tipo farmacologico.


 


 NEUROIMAGING E


PSICOTERAPIA 


 Studi di neuroimaging sugli effetti della psicoterapia 


 Pur essendo un approccio relativamente nuovo,


sono già state pubblicate alcune revisioni degli studi di neuroimaging sugli


effetti della psicoterapia. Tutti questi studi hanno fatto riferimento


all’ipotesi che la psicoterapia, in generale, rappresenti una forma controllata


di apprendimento nel contesto della relazione terapeutica e, pertanto, hanno


considerato la neurobiologia del­la psicoterapia come una forma particolare


della biologia dell’apprendimento. Per questo motivo, la ricerca si è occupata


principalmente delle psicoterapie a orientamento cognitivo-comportamentale, che


si fondano sostanzialmente su paradigmi di apprendimento e memoria, e si


prestano maggiormente ai tentativi di standardizzazione della tecnica e di


oggettivazione e misurazione delle diverse variabili che possono entrare in


gioco nell’indurre il cambiamento clinico, che coincide, nella maggior parte


dei casi, con la riduzione o la risoluzione dei sintomi dei diversi disturbi


psichiatrici. Lo scopo di que­ste indagini è stato principalmente quello di


valutare e di verificare se vi fosse una base neurobiologica che potesse


validare l’efficacia di questi trattamenti, ampiamente utilizzati per i


disturbi d’ansia e depressivi, piuttosto che quello di approfondire i


meccanismi attraverso cui un intervento psicoterapico induce un cambiamento nel


comportamento, nella cognitività, e nella dimensione emotivo-affettiva


dell’individuo.


Le neuroimmagini funzionali nella


valutazione delle modificazioni cerebrali a seguito della psicoterapia


Questi studi hanno evidenziato


che la psicoterapia, in generale, ha l’effetto di normalizzare le anomalie


dell’attività cerebrale delle aree coinvolte nella patogenesi dei disturbi


d’ansia e depressivi, disturbi psichiatrici principalmente indagati con questo


metodo. Tale normalizzazione coincide con il miglioramento clinico e, in molti


casi, è simile alla normalizzazione che si ottiene con gli interventi psico­farmacologici


comunemente utilizzati per tali disturbi. Alcuni studi hanno anche evidenziato


che, le modificazioni dell’attività cerebrale che si ottengono mediante


l’applicazione di protocolli di psicoterapia cognitivo-comportamentale,


inducono modificazioni a livello di aree cerebrali. Tali modificazioni sono


solo in par­te sovrapponibili a quelle che si ottengono a seguito


dell’intervento farmacologico, sugge­rendo che la psicoterapia avrebbe un


effetto neurobiologico specifico.


Studi sul trattamento della depressione


Per quel che riguarda l’effetto


neurobiologico della psicoterapia cognitivo-comporta­mentale sulla depressione


maggiore, uno studio di Goldapple e colleghi ha evidenziato alcune differenze


nella modulazione dei circuiti cortico-limbici in pazienti depressi trattati


con paroxetina o con psicoterapia (Goldapple K et al., 2004). Più recentemente,


Kennedy e collaboratori hanno approfondito ed evidenziato in modo più


specifico, tali differenze. E’ stata condotta una valutazione PET su pazienti


con depressione maggiore sottoposti a trattamento con venlafaxina o con


psicoterapia cognitivo-comportamentale (Kennedy S et al., 2007). Dai risultati


di questo studio è emerso che la risposta clinica a ciascuno dei due


trattamenti era associata a una diminuzione del metabolismo a livello della


corteccia tem­porale di destra. Alcune modificazioni del metabolismo, però,


differenziavano i soggetti che rispondevano alla psicoterapia rispetto a quelli


che rispondevano alla terapia farmaco­logica. Infatti, i pazienti per i quali


la psicoterapia era efficace, presentavano una modula­zione maggiore delle


connessioni cortico-limbiche con modificazioni metaboliche a livello della


corteccia del giro del cingolo, un dato che non era mai stato riportato in


precedenza.



Fig 1







Fig. 2


Figura 1e 2 - Studio SPECT che


confronta soggetti con depressione maggiore trattati con terapia interpersonale


breve e soggetti trattati con il farmaco antidepressivo venlafaxina per un


periodo di 6 settimane. Tutti i soggetti hanno ottenuto un miglioramento


clinico significativo. Entrambi i trattamenti inducono un aumento del flusso


ematico a livello dei gangli della base mentre solo la psicoterapia induce un


aumento del flusso ematico a livello limbico destro. La Fig. 2a si riferisce ai


pazienti trattati con venlafaxina (n=15): essi mostrano un’attivazione a


livello dei gangli della base di destra e della corteccia temporale posteriore


destra. La Fig. 2b si riferisce ai pazienti trattati con psicoterapia (n=13)


che mostrano un’attivazione a livello dei gangli della base di destra e della


corteccia del cingolo posteriore di destra. Fonte: Martin SD et al., 2001.


 



 


PRATICA CLINICA


Supportati dai dati scientifici,


nella pratica clinica quando è indicata o raccomandata la terapia integrata


farmacologica/psicoterapeutica?


Schematizzando, possiamo


affermare che


 È auspicabile inviare in terapia TCC pazienti


in cura farmacologica se


-        


Non


rispondono o rispondono solo parzialmente alla terapia farmacologica


Soprattutto


nelle depressioni lievi o moderate, nelle depressioni reattive o con comorbidità


con Disturbi di Personalità, spesso la terapia farmacologica reca solo un


parziale beneficio. Il paziente appare resistente al cambiamento, permangono le


ruminazioni, le tematiche autosvalutative, l’incapacità di relazionarsi in modo


sano con l’altro. Spesso si evidenziano relazioni familiari disfunzionali, dove


il sintomo depressivo assume valenze ricattatorie, di doppio legame, di


catalizzatore delle dinamiche patologiche. L’invio in TCC ha lo scopo di aiutare


il paziente a valutare il disturbo all’interno di una contesto disfunzionale


che va oltre il mero sintomo, ridimensionando nell’immaginario del paziente il


valore assoluto e salvifico del farmaco.


-        


Continue


modificazioni della terapia antidepressiva per presenza di supposti effetti


collaterali o generiche “intolleranze” al farmaco


Gli


antidepressivi sono normalmente ben tollerati, pur potendo presentare,


soprattutto all’inizio della terapia, alcuni effetti collaterali. Tuttavia,


sempre dopo una attenta valutazione clinica e di laboratorio, lo psichiatra


deve porsi la domanda sul perché il paziente mostri la tendenza a dover continuamente


modificare il farmaco. Infatti questo spesso viene vissuto come qualcosa di


“estraneo” ed intrusivo che elicita fantasmi legati alla paura di “essere


matti” o di essere deboli. Altre volte, ad un livello più profondo, alcune


persone hanno un legame con la propria malattia tale che è entrata a far parte


della loro personalità, ovvero del modo con cui una persona si rappresenta la


propria identità. Eckhart Tolle nel suo libro “Il potere di adesso – Guida


all’illuminazione spirituale” (Edizioni My Life, 2013) afferma:


Ciò non


significa negare che potresti incontrare una forte resistenza interiore nel


processo che ti porta a recidere l’identificazione con il tuo dolore. Ciò


avviene soprattutto se hai vissuto per gran parte della tua esistenza


identificandoti strettamente con il tuo corpo di dolore emotivo e se hai


investito in quest’ultimo la totalità, o una porzione, della tua idea di


identità.


Ciò significa


che hai costruito un io infelice con il tuo corpo di dolore e ritieni che


questa finzione creata dalla mente sia la tua identità. In questo caso, la


paura inconsapevole di perdere la tua identità creerà una forte resistenza al


processo di cui stiamo parlando.


In altre


parole, preferirai soffrire ed


essere il corpo di dolore, piuttosto che compiere un salto nel buio e rischiare


di perdere il tuo io infelice ma familiare.”


-        


Miglioramento


del timismo


Il miglioramento


del timismo permette al paziente di entrare in contatto con i propri vissuti in


maniera diversa rispetto a prima. Ciò significa che, eliminati o attenuati i


sintomi depressivi, percepisca sé stesso e il contesto a lui vicino in modo


diverso e abbia bisogno di un supporto psicologico che lo aiuti nell’identificazione


e nella consapevolezza di un nuovo sé.


 


È auspicabile inviare allo


psichiatra quando


-        


I sintomi


depressivi sono molto gravi,


La gravità dei


sintomi, come importanti idee suicidarie o anticonservative, l’anergia,


l’anedonia, la presenza di un delirio di rovina o di colpa o di deliri


incongrui all’umore, richiedono un intervento farmacologico immediato e mirato


o anche la valutazione eventuale di un ricovero


-        


I sintomi


depressivi sono gravi e interferiscono col processo terapeutico


L’incapacità di


proiettarsi nel futuro, di avere una progettualità, l’appiattimento emotivo ma


anche più banalmente la difficoltà a parlare, possono interferire negativamente


con il processo terapeutico. In questi casi, la riduzione della sintomatologia


depressiva attraverso la farmacoterapia, può rendere più agevole il lavoro


dello psicoterapeuta.


-        


Il


sintomo depressivo è utilizzato come resistenza al cambiamento


Quando un


paziente in terapia porta costantemente il sintomo e non si riesce a spostare


il focus su altro, ci si deve porre il quesito che questo atteggiamento non


nasconda una resistenza al cambiamento o una resistenza a porre l’attenzione su


altri temi emotivamente più dolorosi. La terapia farmacologica, in questo contesto,


può aiutare, riducendo il sintomo, a far prendere coscienza al paziente di


questo meccanismo.


 


In ogni caso, la presa in carico


di un paziente, soprattutto se complesso e difficile, appare migliore se si può


contare su un lavoro di équipe.


La terapia integrata, oltre che


per i motivi fin qui trattati, ha un grosso vantaggio anche per i terapeuti,


siano essi psichiatri o psicologi. La condivisione del caso, la possibilità di


lavorare in sinergia e di condividere aspetti e anche notizie che emergono


magari in un incontro con lo psichiatra ma non con lo psicologo e viceversa,


permette ai singoli professionisti di avere una visione del caso anche da


angolature differenti, di sentirsi supportati e di non sentirsi soli nella


gestione del caso.  Le energie di ciascun


attore del processo terapeutico e cioè paziente, psichiatra e psicologo,


confluiscono in un’unica forma energetica, che è la spinta vitale verso la


guarigione.                       


     Iscritta all'Ordine dei Medici Chirurghi di Como n° 4981  -   Iscritta all'Albo degli Psicoterapeuti di Como

P. IVA n°03399270135

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