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Depressione nell'anziano: cosa è cambiato con la pandemia?

11/10/2021 21:49

Dr.ssa Gaia Guggeri

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Depressione nell'anziano

E' difficile porre una diagnosi di depressione nel paziente anziano poiché i sintomi si presentano in una dimensione sotto-soglia.

PERCHE’ PARLARE DI


PSICOGERIATRIA?


E’ stato previsto che In Europa


l’aumento della popolazione over 65 anni dal 22% dell’anno 2000 aumenterà al


30% nel 2025. In Italia, i soggetti over 65 rappresenteranno, nel 2065, circa


il 33% della popolazione totale, con l’incremento esponenziale delle patologie


età-correlate, quali demenza, malattie cardiovascolari, tumori e depressione.


Si stima che nel 2020 la numerosità dei casi di depressione sarà seconda solo


alle patologie cardiovascolari. Tuttavia spesso è difficile porre una diagnosi


di depressione nel paziente anziano poiché i sintomi si presentano in una


dimensione sotto-soglia e non si è ancora sviluppata una sensibilità clinico-psichiatrica


del disturbo depressivo nelle fasce di età più avanzate che esca dallo


stereotipo della flessione timica legata al concetto di “fine vita”. Spesso è


proprio il caregiver, solitamente il coniuge o un figlio a volte egli stesso


over 60, che richiede aiuto trovandosi solo e in grave difficoltà nella


gestione dell’anziano, mettendo a volte in luce relazioni disfunzionali


precedenti il processo di invecchiamento e per lungo tempo sopite.


 LA DEPRESSIONE NELL’ANZIANO


Prevalenza


La prevalenza della depressione


maggiore negli anziani varia tra il 2% ed il 4% nei soggetti viventi in


comunità, e il 12% tra i pazienti ricoverati in reparti ospedalieri, ed il 16%


tra i pazienti geriatrici residenti in istituti di lungodegenza. La depressione


in età senile è associata a un aumento del rischio di malattie cerebrovascolari


e, con maggiore probabilità rispetto alla depressione che insorge nei giovani,


è associata a importanti disturbi della sfera cognitiva. La depressione causa


anche in questa fascia d'età una compromissione funzionale significativa sul


piano fisico, familiare, sociale ed un'alterazione della percezione della


propria salute; è associata più frequentemente a dolore fisico e costringe i


pazienti più spesso a restare a letto a causa del malessere rispetto a malattie


come l'ipertensione, il diabete, l'artrite e le pneumopatie croniche che pure


sono frequenti in questa epoca della vita. 


 


DEPRESSIONE


MAGGIORE (DM)


Nosografia e clinica della


depressione nell’anziano


Sebbene l’approccio categoriale


del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders dell’American


Psychiatric Association, giunto alla quinta edizione (DSM-5), mal si presti a


“etichettare” l’ampio ventaglio delle espressioni sintomatologiche della depressione


senile, esso rappresenta comunque un punto di riferimento culturalmente


imprescindibile.



 Secondo il DSM-5 i disturbi


depressivi dell’anziano includono il disturbo depressivo maggiore (depressione


maggiore - DM), il disturbo depressivo persistente (distimia), il disturbo


depressivo indotto da sostanze/farmaci, il disturbo depressivo dovuto a


un’altra condizione medica, il disturbo depressivo altrimenti specificato, il


disturbo depressivo senza specificazione. Da notare che la cosiddetta


“depressione minore”, definita operativamente nell’appendice del DSM-IV dalla


presenza di 2-4 sintomi, anziché dei 5 o più richiesti per la diagnosi di DM, è


stata depennata nel DSM-5 e non è più pertanto identificabile come una diagnosi


formale.


 UNA DIAGNOSI COMPLESSA


A rendere complessa la diagnosi


di depressione nell’anziano contribuiscono molti fattori psicologici,


relazionali e socio-ambientali: la rarefazione delle reti sociali, i lutti, la


solitudine non voluta dei luoghi di cura, la deafferentazione sensoriale


(quella dovuta a malattie degli organi di senso, in particolare vista e udito),


l’embricarsi di sintomi fisici con quelli psicologici, la tendenza a mascherare


questi ultimi con problemi somatici, la compresenza di patologie croniche, la


disabilità, il combinarsi di deficit cognitivi con le fragilità che nell’età


avanzata tendono ad accumularsi. Gli stressors a significato depressogeno più


frequenti in età avanzata sono rappresentati dai problemi coniugali o


familiari, che includono separazioni o difficoltà relazionali con i figli, dal


pensionamento e dalla perdita di ruolo sociale, nonché dal cambio di residenza.


La condizione più frequente in assoluto è la comparsa di una malattia fisica


con conseguente disabilità, perdita dell’autonomia e dell’indipendenza.


 A fronte della elevata prevalenza, gli studi


presenti in letteratura indicano che la depressione nell’anziano è riconosciuta


solamente in circa la metà dei casi. I motivi sono molteplici :


– nel paziente anziano la


frequente comorbilità fa sì che i sintomi ed i segni propri della depressione


vengano a sovrapporsi con quelli delle altre malattie coesistenti, complicando


di conseguenza il processo valutativo;


– nel paziente anziano la


sintomatologia depressiva è spesso caratterizzata dalla prevalenza di sintomi


somatici (astenia, anoressia, insonnia, dolore, stipsi ecc.) ed ipocondria


rispetto a quelli della sfera psicoaffettiva (tristezza, pessimismo, facilità


al pianto, senso di colpa, ecc.);


 – la presenza di condizioni socio-ambientali


negative (pensionamento, solitudine, vedovanza, cambiamento di residenza ecc.);


– numerose malattie internistiche


e neurologiche di comune riscontro in età avanzata comprendono nel loro quadro


fenomenologico disturbi depressivi;


– numerosi farmaci inducono


depressione o contribuiscono alla sua espressività clinica;


– l’anziano spesso sottostima i


propri disturbi psicologici attribuendoli alla molteplicità dei problemi fisici


che lo affliggono.



Come già sottolineato, dal punto di vista clinico la


depressione può presentarsi nell’anziano con un quadro sindromico diverso da


quello proprio del soggetto giovane-adulto: i sintomi psico-affettivi sono


sostituiti (o mascherati) da quelli somatici. Questa presentazione clinica


porta spesso il paziente a consultare numerosi specialisti e, di conseguenza,


ad essere sottoposto a continui nuovi accertamenti dai quali, data la coesistente


comorbilità, qualche malattia emerge inevitabilmente portando il soggetto ad


essere sottoposto a trattamenti che non tengono conto dello stato depressivo


che ne è all’origine. Altri aspetti che possono condurre il medico ad una


mancata diagnosi risiedono in altri aspetti che è bene sottolineare: l’anziano


spesso non riferisce disturbi del tono dell’umore in quanto li considera


conseguenza inevitabile dell’invecchiamento; – l’anziano, pur consapevole che


le sue sofferenze potrebbero essere dovute alla depressione, evita volutamente


di parlarne al medico, vuoi per il timore che le sue malattie, “quelle vere”


del corpo, non siano adeguatamente considerate, vuoi per non essere definito un


malato immaginario o di interesse psichiatrico in quanto condizione nei


confronti della quale l’anziano prova disagio e vergogna, soprattutto se basso


è il suo livello di istruzione.


Negli anziani con un Episodio


Depressivo Maggiore, i disturbi della memoria possono rappresentare la


lamentela principale e possono essere erroneamente interpretati come segni


iniziali di demenza ("pseudodemenza"). Quando l'Episodio Depressivo


Maggiore viene trattato con successo, i disturbi della memoria spesso


scompaiono completamente. Comunque, in alcuni individui, particolarmente nelle


persone anziane, l'Episodio Depressivo Maggiore può rappresentare la


manifestazione iniziale di una demenza irreversibile. Infatti uno dei maggiori


problemi diagnostici in psichiatria è differenziare, nell'anziano, la


depressione maggiore dalle forme moderate di malattia di Alzheimer. Nella


differenziazione in questione i sintomi clinici mascherano considerevolmente la


diagnosi e spesso solo il follow-up consente la discriminazione tra le due.


Nella depressione maggiore possono quindi essere presenti deficit in vari


domini cognitivi. D'altro canto i sintomi della Depressione Maggiore quali


umore depresso, apatia, ritiro sociale, perdita d'interessi ricorrono pure in


pazienti con Alzheimer da lieve a moderato. L'apatia per es., è stata rilevata


nel 37% dei pazienti con Alzheimer così come nel 32% dei pazienti depressi non


dementi. Una corretta e precoce diagnosi sia di depressione maggiore che di


malattia di Alzheimer è cruciale per realizzare una terapia specifica e


garantire una prognosi migliore.


 LA DEPRESSIONE SOTTOSOGLIA


NELL’ANZIANO


Nella pratica clinica, tuttavia,


possiamo riscontrare quadri sintomatologici caratterizzati fondamentalmente da


sintomi diversi dall’umore depresso, che non è il primo sintomo riportato.




Definizioni


Il termine “depressione


sottosoglia” (DSS) comprende, in genere, tutte quelle forme depressive che si


caratterizzano per un numero o una durata di sintomi insufficienti a


raggiungere il livello di una delle diagnosi formali del DSM-5, come sopra


elencate, e che, d’altra parte, si accompagnano a una sofferenza soggettiva e a


una significativa compromissione nel funzionamento sociale.


Epidemiologia


Negli studi effettuati sulla


popolazione anziana la DSS, includendo con questo termine sia la cosiddetta


“depressione minore” secondo il DSM-IV, sia le forme subsindromiche, ha una


prevalenza 2-3 volte più elevata rispetto alla DM. Il decorso della DSS risulta


più favorevole rispetto a quello della DM, ma è lontano dall’essere benigno,


con un tasso annuale mediano di remissione sintomatologica completa pari


solamente al 27%. Circa l’8-10% delle persone anziane con DSS sviluppano una DM


nell’arco di un anno. La DSS è risultata associata alle stesse conseguenze


negative della DM, inclusi un ridotto benessere e una ridotta qualità della


vita, un peggioramento dello stato di salute generale, una maggiore disabilità


e un incremento di morbilità e mortalità .


 Quadri clinici


Le presentazioni cliniche della


DSS appaiono eterogenee e scarsamente standardizzabili, variando a seconda dei


campioni e degli strumenti di valutazione utilizzati e nelle quali, di volta in


volta, l’anedonia, la tristezza, l’apatia, l’insonnia e l’ansia/agitazione


possono rivestire il ruolo chiave. 


 


DEPRESSIONE E PANDEMIA


 E’ stato condotto


uno studio in Spagna per valutare l'impatto della nuova pandemia di COVID-19


sulla salute mentale delle persone sopra i 60 anni rispetto a quelle sotto i 60


anni. Nel complesso, i risultati mostrano che i soggetti sopra i 60 anni sono


meno vulnerabili dei partecipanti più giovani alla depressione e allo stress


acuto, inoltre, non hanno mostrato differenze nei livelli di ansia durante il


picco della pandemia rispetto al gruppo under 60 anni. Da questo studio emerge


che le persone anziane non possono essere considerate particolarmente


vulnerabili per lo sviluppo di ansia, depressione e stress acuto durante il


picco della pandemia di COVID-19 in Spagna.


Senza dubbio, la popolazione


anziana è stata la più colpita. Per questo motivo, è necessario ricercare


spiegazioni plausibili per questo risultato inaspettato. Una possibile


ipotesi potrebbe essere che gli anziani in Spagna avessero una resilienza


maggiore rispetto ai più giovani. Pertanto, gli anziani spagnoli avrebbero


potuto incontrare maggiori difficoltà personali per tutta la vita rispetto alle


persone non anziane, come le difficoltà economiche e sociali associate al


periodo spagnolo del dopoguerra (1939-1960), che avrebbero potuto aumentare la


loro capacità di affrontare lo stress causato dalla pandemia di oggi.


Ci sono anche studi che


evidenziano una buona capacità di reazione degli anziani ad alcuni fattori di


stress. Secondo uno studio di Psicologia dell’università della British Columbia


di Vancouver, gli anziani, nonostante la maggiore vulnerabilità fisica, durante


la prima fase della pandemia hanno mostrato un migliore


equilibrio rispetto ai giovani, facendosi meno travolgere da ansie, stress e


preoccupazioni.


Alcune ricerche pubblicate di


recente dimostrano come, all’aumentare dell’età, vi sia una diversa e migliore


regolazione delle emozioni e quindi una maggiore riserva di resilienza. Questo


tuttavia, non significa che non vi siano anziani portatori di sofferenza, o che


non abbiano mostrato in passato o non abbiano tuttora paure e preoccupazioni


legate alla situazione emergenziale in corso.


La necessità di ridurre le


interazioni sociali ha drammaticamente ridotto lo “spazio vitale” di molti


anziani, con un impatto negativo non solo sullo stato di adattamento fisico, ma


anche sul tono dell’umore e a volte, sulla tenuta cognitiva.


Nel corso dei mesi sono emersi


negli anziani, sintomi come stress, ansia, sofferenza, disagio psicologico


dovuto all’ interruzione repentina dei rapporti sociali, dei legami familiari,


del contatto fisico. Essi sono importanti non solo per la prevenzione del


declino cognitivo e del benessere fisico,  ma anche per la percezione di


sé ovvero di essere ancora una persona di valore e di senso per gli altri.


FATTORI PREDITTIVI DI SVILUPPO DIANSIA E DEPRESSIONE NEGLI ANZIANI DURANTE LA PANDEMIA


Gli anziani, infatti, che ancorprima della


pandemia

 avevano subito esperienze di perdita olutti di figure affettivamente importanti hanno sofferto maggiormentedell’isolamento. Gli anziani che sono stati maggiormente supportati dallefamiglie, dai figli e nipoti, o dalle reti sociali aggregatesi spontaneamente,come le reti condominiali, o parrocchiali stanno resistendo meglio al protrarsidelle misure restrittive. Molti anziani, stimolati da una accresciutanecessità, hanno anche iniziato a scoprire i


vantaggi che la tecnologia

può portare alle loro particolari esigenze, pur di restare in contatto con ifigli, i nipoti e gli amici.




LA POST PANDEMIA



Un mondo finora rimasto


inesplorato che ha riservato sorprese e, in alcuni casi, ha cambiato in meglio


il loro stile di vita. In ogni caso dobbiamo prepararci al post


pandemia. Non sempre, infatti, le persone esprimono il malessere


durante l’evento traumatico, alcuni effetti potrebbero esplodere anche dopo. In


altri termini la psicopandemia può essere rappresentata da un


iceberg con la parte più piccola e più visibile caratterizzata da disturbi


psichici più gravi e una parte molto più vasta di malessere e disagio


psicologico, meno visibile ma non meno importante.


Inoltre si sta teorizzando su una


forma meno evidente di sofferenza psichica: l’emozione del 2021 è il “languishing


che ha il senso di languire in uno stato di malessere, caratterizzato da


stagnazione, senso di vuoto, mancanza di voglia di fare e di prospettive. “È


come se si guardasse la vita da un finestrino appannato, il languishing spegne


le motivazioni e distrugge la capacità di concentrazione” teorizza lo psicologo


Adam Grant. In via generale si può ipotizzare che il principale pericolo insito


in questo status emozionale sia l’inconsapevolezza. “se non si riesce a


percepire se stessi come in uno stato di sofferenza, si può scivolare


lentamente nella solitudine, risultando indifferenti alla propria indifferenza.


E quando non si riesce a capire che si sta soffrendo, non si può cercare aiuto


né fare molto per aiutare se stessi”.


Un antidoto al “languishing”


esiste. E’ necessario infatti, dare un nome a questa emozione, capire che non


si tratta di una condizione che appartiene al singolo, ma che, al contrario, è


un qualcosa che in molti stanno sperimentando. Per moltissimi anziani il


rischio più grande è la difficoltà a poter tornare a quelle condizioni


funzionali, cognitive e psico sociali precedenti la pandemia. Il fattore


tempo, per gli anziani è costantemente elemento di attenzione. Per gli


anziani l’idea del futuro è differente rispetto ai giovani, la vita va avanti


in modo naturale giorno per giorno.


La persona anziana sa che il


tempo a sua disposizione non è infinito, e così andrebbe aiutata a modificare


le priorità e cerca di dare un significato al presente, attraverso attività


cognitive e sociali che obblighino a ritornare attivi, a tenere la mente


impegnata, a seguire attività creative, a svolgere regolare attività fisica,


 di volontariato, che aiutino l’anziano a sentirsi utile. Gli anziani,


così come i giovani andranno aiutati a tornare a riappropriarsi di una


ri-socializzazione che abbassi lo spettro della paura. E’ la mancanza di


relazioni generative che amplia lo spettro della solitudine, amplificando


vissuti di abbandono, paura di ammalarsi e di perdere il controllo sulla


propria vita.


Come possiamo contrastare questa


assenza di gioia, questa stasi, dunque? In inglese, c’è la parola “flow”, “flusso”/“fluire”,


che potrebbe essere proprio l’arma giusta contro l’emozione che spinge le


persone a “languire” ovvero a smettere di progettare il futuro. Con questo termine “flow” si intende quello stato di abbandono


che si sperimenta quando si è completamente assorbiti da qualcosa, quel momento


in cui si perde la cognizione del tempo, dello spazio. Qualsiasi attività che


porti a concentrare la mente verso qualcosa di nuovo, riattiva le mappe


cognitive. E


CENNI DI TERAPIA


I dati relativi al trattamento


della depressione senile riguardano quasi esclusivamente la DM, mentre la DSS,


nonostante sia relativamente frequente e risulti associata a esiti negativi,


risulta ampiamente sotto studiata. Nel frattempo l’operatività dei clinici deve


essere basata:


a) sull’individuazione della DSS


con l’osservazione di aspetti clinici e relazionali;


b) sulla messa in atto di


interventi terapeutici non farmacologici;


c) su una scelta


farmacoterapeutica che privilegi composti con efficacia sulle dimensioni


sintomatologiche prevalenti nel singolo soggetto.


 


TRATTAMENTO DELLA DEPRESSIONE


NELL’ANZIANO


La scelta di un antidepressivo


dovrà necessariamente tenere conto della risposta a precedenti trattamenti,


delle eventuali farmacoterapie concomitanti, del rischio potenziale di sovradosaggio,


nonché del tipo di depressione (ansiosa, inibita, psicotica, bipolare, ecc.).


Il trattamento con antidepressivi si dimostra efficace anche in quadri di


comorbilità con patologie sistemiche, nei quali richiede però una maggiore


attenzione al fine di evitare che la terapia stessa possa determinare un


peggioramento della malattia o che possa indurre effetti collaterali rischiosi.


In particolare, composti con marcata azione anticolinergica o antiadrenergica –


come i triciclici – possono peggiorare le demenze, le cardiopatie, il diabete e


la malattia di Parkinson. È importante, infine, minimizzare le interazioni


farmacologiche (farmacodinamiche e farmacocinetiche), particolarmente probabili


negli anziani per la frequente politerapia.


Elementi per valutare la gravità della depressione e la


necessità di un trattamento farmacologico.


1 L’entità della deflessione


timica e/o dell’anedonia


2 La comparsa o il peggioramento


di disturbi del sonno, dell’appetito, astenia /apatia/anergia


3 Variazioni circadiane della


sintomatologia con peggioramento al mattino


4 La presenza di agitazione o


rallentamento psicomotorio


5 Una durata dell’episodio di


almeno 2 settimane


6 Sintomi psicotici concomitanti


 


L’antidepressivo ideale per


l’anziano dovrebbe soddisfare questi cinque punti:


1. efficacia terapeutica


documentata;


2. tollerabilità e sicurezza;


3. assenza di interazioni


farmacologiche;


4. maneggevolezza d’impiego;


 5. sicurezza in overdose 


 


All’interno della classe degli SSRI, sia la fluoxetina,


sia la paroxetina, sono poco raccomandate

per la terapia antidepressiva


negli anziani: la prima per la lunga emivita e per i prolungati effetti


indesiderati; la seconda per gli eventuali effetti anticolinergici. Citalopram,


escitalopram, sertralina (a basse dosi), venlafaxina, mirtazapina, bupropione e


trazodone offrono, tra gli antidepressivi di seconda generazione, il miglior


profilo per quanto riguarda le interazioni farmacocinetiche. Al contrario,


fluoxetina, fluvoxamina e paroxetina presentano un rischio maggiore di


interazioni farmacocinetiche. Gli AD triciclici vengono attualmente indicati


come terapia di seconda linea nel trattamento della depressione senile, in


considerazione del rapporto rischio-beneficio meno favorevole. In particolare,


i composti aminici secondari quali nortriptilina e desipramina, rappresentano i


triciclici d’impiego più documentato negli anziani grazie alla minore


collateralità di tipo autonomico; sono invece sconsigliati i composti aminici


terziari (amitriptilina, clomipramina, imipramina, ecc.)


 


Dosaggi


La


dose iniziale raccomandata degli antidepressivi nell’anziano dovrebbe


corrispondere alla metà di quella prescritta in un adulto giovane, al fine di


minimizzarne il rischio di eventuali effetti collaterali. L’incremento di


questi ultimi è verosimilmente dovuto alla riduzione del metabolismo epatico in


età senile, a malattie somatiche intercorrenti e a interazioni farmacologiche.


Oltre a seguire la tradizionale raccomandazione start low and go slow l’obiettivo


del clinico deve essere quello di incrementare il dosaggio dell’antidepressivo


regolarmente a intervalli di 1-2 settimane, a seconda della tollerabilità


individuale, con l’obiettivo di raggiungere una dose terapeutica il più


rapidamente possibile, comunque entro un mese. 


La pratica clinica: l’approccio dimensionale



Nella pratica clinica la


scelta dell’antidepressivo non può non tener conto del dato che ansia e


insonnia appaiono tra le dimensioni psicopatologiche più frequenti della DSS


nell’anziano


Trazodone


cloridrato è considerato il capostipite di una classe di farmaci antidepressivi


denominata SARI (Serotonin Antagonist and Reuptake Inhibitor). Oltre all’azione


serotoninergica il trazodone ha un’azione antagonista sui recettori H1 e


a1-adrenergici. Nell’attuale pratica clinica, soprattutto se riferita al


paziente anziano, trazodone tende ad essere più frequentemente prescritto a


bassi dosaggi (50-150 mg/die), già dimostrando una rapida efficacia nel


miglioramento sintomatico della depressione senile associata ad ansia, insonnia


e/o disturbi comportamentali in corso di demenza. La compromissione del ritmo


sonno-veglia tipica del paziente depresso rappresenta una condizione


particolarmente stressante per l’omeostasi funzionale dei neuroni. Ripristinare


un fisiologico ritmo sonno-veglia svolge quindi un ruolo cruciale nella


modulazione della sfera cognitiva, affettiva ed emozionale. La peculiare efficacia


di trazodone nel normalizzare il ritmo sonno-veglia nel paziente depresso, già


a basso dosaggio, rappresenta un importante valore aggiunto utile a rendere più


efficace, soprattutto a livello cognitivo, il trattamento a lungo termine dei


disturbi depressivi.


Non


va sottovalutato come l’impiego di trazodone a livello sintomatico si traduca


spesso, nella pratica, in un’efficace alternativa alle BDZ, delle quali sono


noti gli svantaggi, particolarmente in ambito psicogeriatrico.


Il


composto è ben tollerato e determina raramente sintomi quali disfunzione


sessuale, aumento di peso, attivazione e/o viraggi maniacali; non causa, in


genere, effetti extrapiramidali o anticolinergici di rilievo e non è


controindicato nel glaucoma e nei disturbi minzionali.


 


LA FAMIGLIA DEL PAZIENTE ANZIANO E LA FIGURA DEI CAREGIVER


 


La famiglia, come ogni altro


organismo, non è una struttura statica, ma dinamica, in continua evoluzione. Da


un punto di vista funzionale, le relazioni familiari possono essere descritte


in termini di ruoli che ogni membro ha nei riguardi dell’altro. Il ruolo di un


soggetto è complementare al contro-ruolo di uno o più membri; ciò implica che


se il ruolo e il contro-ruolo rappresentano un buon equilibrio, la relazione


tende ad essere armoniosa. Nel corso degli anni la famiglia va incontro a


diverse modificazioni della struttura e della funzione (quando i figli


crescono, escono di casa o quando un membro muore). La famiglia, quindi, passa


attraverso diverse fasi che si susseguono: pregenitoriale, genitoriale,


postgenitoriale e la fase dell’invecchiamento della famiglia. Di conseguenza,


le relazioni tra i membri della famiglia e i loro ruoli cambiano continuamente.


Viene spesso ritenuto che un


figlio con buone relazioni coi genitori, quando diventerà adulto, manterrà tali


relazioni buone. Questa è una valutazione semplicistica. Spesso i genitori


anziani rappresentano un forte fattore di responsabilità per i figli. Questi


prendono coscienza del fatto che i loro genitori non sono onnipotenti e che le


qualità che hanno loro attribuito da piccoli non sempre corrispondono al


vero. Ne consegue che la capacità di


relazionarsi col proprio genitore come un adulto maturo rappresenta la vera


“emancipazione” del figlio e la prova di aver raggiunto una propria identità. In


questo modo, i cambiamenti psicologici che riflettono uno specifico cambiamento


di ruolo, fanno parte di un processo di


sviluppo che conduce alla filial maturity.


Questa transizione implica,


inoltre, un rovesciamento dei ruoli che spesso può causare notevoli tensioni.


Il figlio adulto non vuole assumere il ruolo di genitore nei confronti dei suoi


stessi genitori: sono quelle persone tendenzialmente dipendenti, insicuri e


necessitano di qualcuno che al loro fianco che sia forte e che possa dare loro


un supporto. di conseguenza può accadere che


l’invecchiamento del genitore non sia permesso, l’idea della morte


rifiutata e la capacità di supporto invalidata. Sono quei figli che appaiono


spesso aggressivi o insofferenti verso le lamentele del genitore o i piccoli


problemi fisici. Questa intolleranza, a sua volta, porta all’aumento dei sensi


di colpa nei confronti dei genitori, bassa autostima e rinforzo del senso di


dipendenza.


Dall’altra parte, si può


assistere quando il genitore anziano rimane tenacemente aggrappato ad un


insieme di ruoli ormai superati o ad una obsoleta immagine di sé; così egli


continua a vedersi come un capo famiglia le cui decisioni non devono essere


messe in discussione.


In un interessante studio longitudinale


su 14 anni del 1993 di Field erano state valutate la quantità e la qualità dei


contatti tra membri della famiglia e genitori anziani e in che modo gli anziani


vivono soggettivamente tali contatti in riferimento allo stato di salute. I


risultati furono opposti a quanto atteso. Infatti   emerse che all’inizio dello studio, lo stato


di salute era minimamente predittivo di contatti con i membri della famiglia,


mentre 14 anni dopo la salute si era rivelata il più forte fattore predittivo


della quantità dei contatti. Ma sorprendentemente un buono stato di salute e


non un cattivo stato di salute aveva portato ad una maggiore quantità dei contatti,


Questo risultato potrebbe sconcertare, poiché ci si aspetterebbe che la


mobilitazione di familiari e amici


aumenti con la presenza di malattie nell’anziano. In realtà, i genitori


anziani che hanno bisogno di maggiore assistenza, valutano l’atteggiamento dei


loro figli, mutato dall’affetto al dovere e all’obbligo e quindi contrastano il


loro aiuto e non ritengono i contatti soddisfacenti.


La assistenza di una persona


anziana con uno stato di salute che va a via via deteriorandosi nel tempo


richiede risorse emotive notevoli . Già la malattia del proprio caro a


prescindere dall’età crea una crisi ripercuote su tutta la struttura familiare


a maggior ragione la malattia di una persona anziana pone familiare davanti


allo spettro della morte e alle difficoltà oggettive di una adeguata assistenza.


Vedere il proprio padre e la propria madre spegnersi gradualmente carica il


figlio di un peso emozionale difficile da reggere in questo modo si fa ricorso


alla istituzionalizzazione OA un’assistenza domiciliare che assicurando


un’obiettiva migliore cura permette al figlio di vivere meno a contatto col


decadimento fisico e in alcuni casi anche mentale del genitore e di conseguenza


di reggere meglio la situazione. Oltre a questi aspetti psicologici ne


scorgiamo un altro , che potremmo definire sociale, che può aiutarci a capire


la correlazione tra salute contatti familiari qui sopra riportata. Se prendiamo


in considerazione il gruppo di anziani di età compresa tra i 65 e i 74 anni


possiamo ragionevolmente valutare che l’età media dei figli sia compresa tra i


40 e i 55 anni cioè un’età in cui la carriera ti lavorativa e al culmine e in


cui la famiglia acquisita ha esigenze sempre più importanti e preminenti. Il


cattivo stato di un genitore anziano con tutte le conseguenze che esso comporta


richiede un impegno e una continuità che spesso il figlio anche volendolo non


può fornire. Quando poi l’anziano e ultraottantenne caso che si verifica sempre


più frequentemente oggi spesso il figlio e a sua volta già anziano potendo


avere più di 65 anni ciò rende l’assistenza ancora più problematica e


difficile. D’altronde il bisogno di libertà dell’ anziano e il rifiuto


dell’assistenza data dai figli è vissuta come obbligo legittimano un desiderio


di reciproca indipendenza che si traduce nella decisione di vivere separatamente


pur mantenendo contatti e rapporti assidui. Questo tipo di relazione permette


di conservare il senso della famiglia, garantisce il mantenimento dei legami


affettivi e nel contempo, realizzando una situazione di intimità a distanza,


consente all’anziano di soddisfare il suo desiderio di attenzione. I tal modo si


evita che i legami affettivi sì deteriorino attraverso l’esasperazione di


conflittualità che di solito non vengono apertamente espresse oh agite ma


generano correnti pulsionali latenti e sentimenti di ambivalenza. E necessario


comunque prendere in considerazione anche le relazioni familiari antecedenti il


processo di invecchiamento.


Ad esempio alcuni studi hanno


rilevato che i figli che hanno percepito da piccoli un rifiuto da parte dei


genitori tendono ad esprimere una minore preoccupazione rispetto al benessere


dei loro genitori e una minore esigenza di rimanere in contatto con essi. Allo


stesso modo rapporti di dipendenza con tematiche auto valutative da parte dei


genitori nei confronti dei figli tendono ad aumentare la presenza del figlio


stesso ma con modalità disfunzionali.


Infine e interessante valutare se


il benessere dell’anziano dipende unicamente dal processo di senescenza in sé e


dai rapporti coi propri familiari oh se vi sia qualche altro fattore che abbia


potuto influenzare il benessere di una persona anche nella vecchiaia. La teoria


dell’ attachment è stata sviluppata da Bowlby nel 1972-1973. In accordo con la


teoria dell’ attachment un individuo sviluppa dei modelli interni che


funzionano sul se e sugli altri basati sulle originali relazioni con la figura


guida. Quando i genitori ora figura guida sono disponibili e rispondono alle


necessità dei figli lo sviluppo individuale si indirizza verso una maggiore


fiducia in sé stessi Enel proprio valore e verso un’adeguata funzione sociale


Di conseguenza un Secure attachments è associato ad una stabilità emozionale in


ogni periodo della vita. Quando invece abbiamo un insicure attachments ci


troviamo di fronte ad una mancanza di fiducia in sé e negli altri. La


conseguenza e che in persone con un Secure attachment aumenta la capacità di


coping oh resilienza nelle varie fasi della vita e quindi anche nella


senescenza. Da questo primitivo rapporto si sviluppano altre relazioni che


coinvolgono figli parenti nipoti amici e che determinano un buon


invecchiamento. Il benessere emotivo ed esistenziale dell’anziano dipende


dunque dal suo grado di attività dal coinvolgimento nelle relazioni sociali dal


mantenimento di interessi e soprattutto dalla capacità di adattarsi alle


limitazioni della vecchiaia ma anche da saper cogliere i lati positivi che come


in tutte le età questa è implica parentesi ad esempio maggiori libertà maggiore


indipendenza chiusa parentesi.


 


COVID E FAMIGLIA


La attuale pandemia ha, da un lato, permesso un


riavvicinamento emotivo nella lontananza. La preoccupazione per il contagio,


l’impossibilità di vedere i propri genitori anziani, il dover provvedere a


distanza dei bisogni primari (spesa, farmacia) hanno messo in luce una preoccupazione


autentica che l’anziano in molti casi ha percepito. Per contro, dove i rapporti


erano già disfunzionali, il Covid ha implementato tensioni e disagi. Ciò che ha


fatto davvero la differenza è stata la capacità di adattamento e l’interesse


dell’anziano, che, per chi ha voluto, è stato spinto ad affidarsi alle nuove


tecnologie (es, le video chiamate, l’uso de C e del cellulare). Inoltre, in


alcuni casi il soggetto anziano è stato in grado di riappropriarsi di un ruolo


nel momento in cui ha dovuto supplire ai genitori nella DAD. Questo ha permesso


un riavvicinamento emotivo verso i nipoti, magari in fase preadolescenziale e


la riacquisizione di una immagine di sé migliore.


     Iscritta all'Ordine dei Medici Chirurghi di Como n° 4981  -   Iscritta all'Albo degli Psicoterapeuti di Como

P. IVA n°03399270135

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