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TERAPIA INTEGRATA: UN MODELLO DI INTERVENTO PER LA DEPRESSIONE

15/10/2020 23:03

Dr.ssa Gaia Guggeri

Terapia integrata: farmaci e psicoterapia, Antidepressivi, farmaci e psicoterapia nella depressione, psicoterapia,

TERAPIA INTEGRATA: UN MODELLO DI INTERVENTO PER LA DEPRESSIONE

E' stato scientificamente dimostrato che la terapia integrata farmacologica e psicoterapeutica apporta maggiori risultati rispetto all'utilizzo delle singole te

Soltanto qualche decennio fa, la


psichiatria e la psicologia erano tenute ben distinte, come se il loro campo di


applicazione fosse ben diverso. Gli psichiatri ritenevano che la psicoterapia


servisse solo da “supporto” o da “riabilitazione” al paziente, uno spazio dove


semplicemente parlare, al contrario, invece, della terapia farmacologica, che


curava il substrato organico-biologico della malattia psichica. D’altro canto,


gli psicologi vedevano nella terapia farmacologica solo la cura del sintomo e


non le vere cause psicologiche sottese al disturbo, contestando di fatto la necessità


della somministrazione farmacologica per lungo tempo. Sebbene per decenni


psichiatria e psicologia si siano confrontate sui rispettivi modelli


terapeutici, a volte con contrapposizioni radicali che lasciavano ben poco


spazio a qualsiasi possibilità di incontro, negli ultimi anni si è sviluppato


un pensiero condiviso sulla possibilità di adottare una terza via che


contempli una reale integrazione clinica dei due approcci. Affinché tale


integrazione sia il più efficace possibile è indispensabile comprendere a fondo


in che modo le due modalità terapeutiche agiscano, separatamente e


congiuntamente, così da poter pianificare interventi il più possibile


aderenti alle specificità dei singoli casi. Infatti, l’integrazione tra


farmacologia e psicoterapia implica l’ipotesi che i due approcci vadano ad


agire su piani simili ma non del tutto sovrapponibili (Keller et al., 2000),


ottenendo così risultati migliori rispetto all’impiego dei singoli interventi.


Già nel ’75, in un suo famoso studio, Luborskj affermòche gli interventi integrati ottengono risultati migliori rispetto ai singolitrattamenti e che, in quest’ultimo caso, la psicoterapia raggiunge risultatimigliori se paragonata al solo intervento farmacologico. Qualche anno dopo, anche Weissmann(1979, 1984) evidenziò una superiorità nell’efficacia delle terapie combinatesia rispetto ai gruppi trattati con una singola modalità che ad un gruppo dicontrollo.



Negli ultimi decenni gli studi si


sono evoluti grazie all’introduzione di nuove tecniche per “leggere” le


modificazioni del cervello durante la malattia e le modificazioni strutturali e


biochimiche dopo l’intervento terapeutico, sia farmacologico che


psicoterapeutico.


la patologia depressiva è un


fenomeno complesso e, di conseguenza, gli approcci terapeutici a questo


disturbo devono tenere presente tale complessità per migliorare la loro


efficacia. Ciò è possibile attuando interventi che prendano in esame i


molteplici piani che costituiscono l’individuo e che vengono compromessi dalla


depressione: quello sintomatologico, somatico, intrapsichico, relazionale e


sociale. Poiché l’impatto del disturbo psichico sull’equilibrio dell’individuo


avviene contemporaneamente su più livelli, questi devono essere considerati


come interdipendenti e non isolati tra loro. Inoltre, fra gli obiettivi


terapeutici, oltre alla remissione dei sintomi e ad un miglioramento della


qualità della vita dei pazienti, deve essere tenuta presente la possibilità di


influire sulle variabili che consentono di evitare, o per lo meno di ridurre,


le eventuali ricadute future.


Inoltre, sebbene sia stato


dimostrato che i farmaci siano in grado, da soli, di funzionare come sostituto


e riparatore biochimico delle carenze o degli eccessi del disturbo


psichiatrico, oggi è comprovato che la psicoterapia introduca cambiamenti


funzionali e strutturali del cervello che sono in rapporto con cambiamenti


nell’espressività di geni specifici (Kandel, 1983) e contribuisca ad aumentare


la compliance farmacologica, favorendo la continuità e la corretta assunzione


dei farmaci (Bellino et al., 2002). A sostegno dell’ipotesi che considera


l’esistenza di un doppio canale attraverso il quale agirebbero le diverse


modalità terapeutiche, rispettivamente gli interventi farmacologici e


psicoterapeutici, si aggiungono i risultati di uno studio di Goldapple et al.


(2004). Questa ricerca ha comparato, con l’utilizzo della tomografia ad emissione


di positroni (PET), le modificazioni nell’attività cerebrale di soggetti


depressi al termine di un trattamento farmacologico a base di paroxetina


rispetto a pazienti depressi trattati con una terapia cognitivo-comportamentale


per un ciclo di 15-20 sedute. E’ stato dimostrato che entrambi i trattamenti


provocano dei cambiamenti dell’attività cerebrale tali da ridurre la patologia


depressiva. Nello specifico, al termine dei trattamenti, si assisterebbe ad un


aumento dell’attività della regione limbica e della corteccia frontale. Ma


l’aspetto di maggior interesse evidenziato dalla ricerca riguarda il diverso


percorso seguito dai trattamenti nel raggiungere tale risultato: la


psicoterapia seguirebbe un percorso dall’alto verso il basso (top-down) aumentando


il metabolismo dell’ippocampo e del cingolo dorsale e diminuendo l’attività


della corteccia dorsale, mediana e ventrale. Tali cambiamenti sarebbero in


grado di modificare meccanismi come quelli della memoria e dell’attenzione che,


nel caso siano caratterizzati da errori (bias) affettivi e cognitivi, provocano


l’emergere ed il permanere della depressione.


Diversamente, la paroxetina


seguirebbe un percorso dal basso verso l’alto (bottom-up), modificando


direttamente lo stato biochimico del cervello, aumentando il metabolismo


dell’area prefrontale e diminuendo quello dell’ippocampo e di altre aree,


agendo così sulle aree legate alle emozioni fondamentali ad ai ritmi


circadiani. Gli Autori concludono indicando, quale fattore fondamentale e


critico per la remissione della malattia, la possibilità di una terapia


integrata in grado di produrre una modulazione complessiva del sistema


descritto piuttosto che un cambiamento nell’attività di una singola regione


cerebrale.


Come visto prima, il trattamento


farmacologico con antidepressivi è di provata efficacia nel risolvere gli


episodi acuti e nel prevenire ricadute fino a quando viene mantenuto. Tuttavia,


numerosi studi di follow-up, condotti su un totale di oltre 3000


pazienti con depressione maggiore, hanno mostrato che la percentuale di


ricadute dopo la sospensione è molto elevata (superiore al 40% in un anno).


Inoltre, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, la frequenza delle


ricadute dopo la sospensione non dipende dalla durata del trattamento, né dalla


gradualità della sospensione. L’assunzione a tempo indeterminato di farmaci


antidepressivi non appare una soluzione ottimale, mentre la strategia di


sospendere periodicamente il trattamento farmacologico per brevi periodi


comporta invece il rischio dell’instaurarsi di una resistenza al trattamento.  Una possibile soluzione al problema è


l’associazione di una psicoterapia.


Alcuni studi controllati


randomizzati hanno mostrato che la combinazione di psicoterapia e trattamento


farmacologico è efficace nel ridurre il tasso di ricaduta, anche a distanza di


anni dal termine del trattamento. A nostro parere, l’adozione, o la


condivisione tra i curanti, di un modello derivato dalla medicina psicosomatica


che superi una troppo rigida dicotomia mente-cervello e che veda i due


trattamenti, opportunamente somministrati, come sinergici e non come


competitivi, potrebbe consentire in molti pazienti una proficua integrazione di


farmacoterapia e psicoterapia. Questo modello viene in considerazione alla luce


di due nozioni fondamentali: la prima, che le patologie psichiatriche, anche


quelle più evidentemente “reattive”, sono caratterizzate da modificazioni


biologiche; la seconda, che tutti i trattamenti, anche quelli psicologici,


hanno effetti biologici. Per quel che riguarda l’effetto neurobiologico della


psicoterapia cognitivo-comportamentale sulla depressione maggiore, oltre al già


citato studio di Goldapple e colleghi che ha evidenziato alcune differenze


nella modulazione dei circuiti cortico-limbici in pazienti depressi trattati


con paroxetina o con psicoterapia (Goldapple K et al., 2004), più recentemente,


Kennedy e collaboratori hanno approfondito ed evidenziato in modo più


specifico, tali differenze. E’ stata condotta una valutazione PET su pazienti


con depressione maggiore sottoposti a trattamento con venlafaxina o con


psicoterapia cognitivo-comportamentale (Kennedy S et al., 2007). Dai risultati


di questo studio è emerso che la risposta clinica a ciascuno dei due


trattamenti era associata a una diminuzione del metabolismo a livello della


corteccia temporale di destra. Alcune modificazioni del metabolismo, però,


differenziavano i soggetti che rispondevano alla psicoterapia rispetto a quelli


che rispondevano alla terapia farmacologica. Infatti, i pazienti per i quali la


psicoterapia era efficace, presentavano una modulazione maggiore delle


connessioni cortico-limbiche con modificazioni metaboliche a livello della


corteccia del giro del cingolo, un dato che non era mai stato riportato in


precedenza.


PRATICA CLINICA


Supportati dai dati scientifici,


nella pratica clinica quando è indicata o raccomandata la terapia integrata


farmacologica/psicoterapeutica?


Schematizzando, possiamo


affermare che


 È auspicabile inviare in terapia TCC pazienti


in cura farmacologica se


-        


Non


rispondono o rispondono solo parzialmente alla terapia farmacologica


Soprattutto


nelle depressioni lievi o moderate, nelle depressioni reattive o con comorbidità


con Disturbi di Personalità, spesso la terapia farmacologica reca solo un


parziale beneficio. Il paziente appare resistente al cambiamento, permangono le


ruminazioni, le tematiche autosvalutative, l’incapacità di relazionarsi in modo


sano con l’altro. Spesso si evidenziano relazioni familiari disfunzionali, dove


il sintomo depressivo assume valenze ricattatorie, di doppio legame, di


catalizzatore delle dinamiche patologiche. L’invio in TCC ha lo scopo di aiutare


il paziente a valutare il disturbo all’interno di una contesto disfunzionale


che va oltre il mero sintomo, ridimensionando nell’immaginario del paziente il


valore assoluto e salvifico del farmaco.


-        


Continue


modificazioni della terapia antidepressiva per presenza di supposti effetti


collaterali o generiche “intolleranze” al farmaco


Gli


antidepressivi sono normalmente ben tollerati, pur potendo presentare,


soprattutto all’inizio della terapia, alcuni effetti collaterali. Tuttavia,


sempre dopo una attenta valutazione clinica e di laboratorio, lo psichiatra


deve porsi la domanda sul perché il paziente mostri la tendenza a dover continuamente


modificare il farmaco. Infatti questo spesso viene vissuto come qualcosa di


“estraneo” ed intrusivo che elicita fantasmi legati alla paura di “essere


matti” o di essere deboli. Altre volte, ad un livello più profondo, alcune


persone hanno un legame con la propria malattia tale che è entrata a far parte


della loro personalità, ovvero del modo con cui una persona si rappresenta la


propria identità. Eckhart Tolle nel suo libro “Il potere di adesso – Guida


all’illuminazione spirituale” (Edizioni My Life, 2013) afferma:


Ciò non


significa negare che potresti incontrare una forte resistenza interiore nel


processo che ti porta a recidere l’identificazione con il tuo dolore. Ciò


avviene soprattutto se hai vissuto per gran parte della tua esistenza


identificandoti strettamente con il tuo corpo di dolore emotivo e se hai


investito in quest’ultimo la totalità, o una porzione, della tua idea di


identità.


Ciò significa


che hai costruito un io infelice con il tuo corpo di dolore e ritieni che


questa finzione creata dalla mente sia la tua identità. In questo caso, la


paura inconsapevole di perdere la tua identità creerà una forte resistenza al


processo di cui stiamo parlando.


In altre


parole, preferirai soffrire ed


essere il corpo di dolore, piuttosto che compiere un salto nel buio e rischiare


di perdere il tuo io infelice ma familiare.”


-        


Miglioramento


del timismo


Il miglioramento


del timismo permette al paziente di entrare in contatto con i propri vissuti in


maniera diversa rispetto a prima. Ciò significa che, eliminati o attenuati i


sintomi depressivi, percepisca sé stesso e il contesto a lui vicino in modo


diverso e abbia bisogno di un supporto psicologico che lo aiuti nell’identificazione


e nella consapevolezza di un nuovo sé.


 


È auspicabile inviare allo


psichiatra quando


-        


I sintomi


depressivi sono molto gravi,


La gravità dei


sintomi, come importanti idee suicidarie o anticonservative, l’anergia,


l’anedonia, la presenza di un delirio di rovina o di colpa o di deliri


incongrui all’umore, richiedono un intervento farmacologico immediato e mirato


o anche la valutazione eventuale di un ricovero


-        


I sintomi


depressivi sono gravi e interferiscono col processo terapeutico


L’incapacità di


proiettarsi nel futuro, di avere una progettualità, l’appiattimento emotivo ma


anche più banalmente la difficoltà a parlare, possono interferire negativamente


con il processo terapeutico. In questi casi, la riduzione della sintomatologia


depressiva attraverso la farmacoterapia, può rendere più agevole il lavoro


dello psicoterapeuta.


-        


Il


sintomo depressivo è utilizzato come resistenza al cambiamento


Quando un


paziente in terapia porta costantemente il sintomo e non si riesce a spostare


il focus su altro, ci si deve porre il quesito che questo atteggiamento non


nasconda una resistenza al cambiamento o una resistenza a porre l’attenzione su


altri temi emotivamente più dolorosi. La terapia farmacologica, in questo


contesto, può aiutare, riducendo il sintomo, a far prendere coscienza al paziente


di questo meccanismo.


 


In ogni caso, la presa in carico


di un paziente, soprattutto se complesso e difficile, appare migliore se si può


contare su un lavoro di équipe.


La terapia integrata, oltre che


per i motivi fin qui trattati, ha un grosso vantaggio anche per i terapeuti,


siano essi psichiatri o psicologi. La condivisione del caso, la possibilità di


lavorare in sinergia e di condividere aspetti e anche notizie che emergono


magari in un incontro con lo psichiatra ma non con lo psicologo e viceversa,


permette ai singoli professionisti di avere una visione del caso anche da


angolature differenti, di sentirsi supportati e di non sentirsi soli nella


gestione del caso.  Le energie di ciascun


attore del processo terapeutico e cioè paziente, psichiatra e psicologo,


confluiscono in un’unica forma energetica, che è la spinta vitale verso la


guarigione.


                            


                                         



     Iscritta all'Ordine dei Medici Chirurghi di Como n° 4981  -   Iscritta all'Albo degli Psicoterapeuti di Como

P. IVA n°03399270135

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