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6. DOTTORE.... MA E’ VERO CHE?

23/02/2020 22:30

Dr.ssa Gaia Guggeri

psicofarmaci, antidepressivi, antidepressivi... ma è vero che...,

6. DOTTORE.... MA E’ VERO CHE?

Fake sulla depressione e loro conseguenze

Prendendo in prestito la campagna contro le fake news in medicina


promossa dalla FNOMCeO (Federazione Nazionale Ordini Medici Chirughi e


Odontoiatri “Dottore....ma è vero che?), proviamo anche noi a smentire i falsi miti e bufale sugli


antidepressivi.


 


1.     I farmaci bastano anche senza


psicoterapia: i farmaci curano solo il sintomo e la psicoterapia la causa


Falso. Medicine e tecniche psicologiche sono strumenti che mirano agli


stessi obiettivi, con modalità diverse, ma non sono “mondi” diversi. E' falso


sia che i medicinali non curino alla radice, sia che le psicoterapie per


definizione curino alla radice. I medicinali arrivano ad influenzare sia le


interazioni ambientali che le strutture cerebrali. Diversi studi hanno dimostrato


che la psicoterapia riesce a modificare le strutture del cervello, che è un


organo molto plastico. In molti casi l'uso degli


psicofarmaci necessita di essere integrato all'interno di un percorso di cura


che include anche la psicoterapia, così come la psicoterapia necessita


dell’aiuto dei farmaci per poter “lavorare” meglio.


 


2.     Le medicine possono farci poco quando


il malessere deriva da avvenimenti o esperienze negative.


Falso. Per


lo stesso ragionamento di cui sopra, quest'idea è sbagliata. I medicinali


influenzano un livello di funzionamento e plasticità del cervello che è comune


sia alle malattie fondate su una vulnerabilità di partenza, sia a malattie che


si sviluppano per l'intervento di fattori esterni. Non vi è quindi alcuna


differenza sostanziale in questo. Inoltre, il nesso di causalità è secondario


rispetto alla presenza di determinati sintomi e influisce poco sulla evoluzione


e sulla prognosi. A volte, anche la gravità dell’evento scatenante non appare


correlato alla gravità della Sindrome depressiva sviluppata: esperienze


estremamente gravi possono non influire in modo significativo sul tono


dell’umore, mentre eventi apparentemente più “lievi” possono innescare una


grave risposta depressiva


 


3.     Gli antidepressivi in realtà sono placebo.


Falso. Questo tipo di


affermazione spesso prende uno o due studi relativi a un tipo specifico di


farmaco su un tipo specifico di disturbo e la estende a qualsiasi cosa. Al


contrario, diversi e autorevoli studi effettuati da scienziati e ricercatori,


hanno ormai stabilito senza ombra di dubbio la correlazione positiva tra


miglioramento dei sintomi depressivi e terapia farmacologica antidepressiva.


Esistono poi correnti “complottistiche” sugli interessi economici delle case


farmaceutiche. Senza entrare in un dibattito su questo, è, però, paradossale


come si accetti per buono che “gli psicofarmaci sono una truffa”, mentre invece


si vedano di buon occhio una miriade di prodotti in libera vendita (anche


questi venduti dalle case farmaceutiche) con indicazioni vaghe e indefinite


tipo “è utile”, “aiuta”, “può agevolare” in riferimento a generiche condizioni


di ansia, stress, malessere, debolezza, etc.


 


4.     Alterano la personalità


Falso. Purtroppo,


ancora oggi, questa credenza è ancora molto diffusa. Gli psicofarmaci agiscono


sui sintomi del disturbo e solo per questa ragione sembrano alterare il


carattere. Il carattere, che è una caratteristica propria di ogni persona, può


risentire di un disturbo depressivo sottostante, magari presente da anni (ad


esempio la Distimia). Quando, con il farmaco, si va a incidere sul sintomo,


sembra che abbiano influito anche sulla personalità, ma ciò non è ovviamente


possibile.


 


5.     Se il problema è il passato gli


antidepressivi non servono


Falso. I farmaci


agiscono in modo da condizionare in ogni caso il funzionamento del cervello. Anche se l'attuale disturbo è causato da esperienze


negative del passato, essi possono comunque influenzare il modo di affrontare


il presente e il futuro.


 


6.     Creano dipendenza


Falso. Gli


psicofarmaci usati correttamente e sotto controllo dello specialista psichiatra


non danno problemi di dipendenza. I farmaci potenzialmente pericolosi in questo


senso sono le benzodiazepine, ossia i comuni ansiolitici o ipnoinducenti. Lo


specialista ne conosce i potenziali rischi e può indirizzare il paziente verso


il loro uso corretto e limitato nel tempo. Anzi, spesso il rischio è proprio


l’opposto, cioè di interrompere prima la terapia: sperimentando una situazione


di benessere, il paziente ritiene di poter fare a meno dell’antidepressivo e lo


interrompe prima del dovuto, implementando il rischio di ricadute. Se non si


pensa che il cervello è l’organo che si ammala, succede che chi ha bisogno di


lunghe cure per la presenza di recidive alla sospensione, può ritenere di non


poterne più fare a meno perché dipendente. Se non le prende si riammala, se le


prende sta bene, quindi la malattia è “colpa” delle medicine. Questo pensiero


paradossale deriva proprio dal rifiuto istintivo di pensare che davvero tutta


la complessità di pensieri, affetti e comportamenti possa derivare dal


cervello.


 


7.     Fanno male


Falso. Se vengono


assunti come da prescrizione medica e sotto controllo non creano danni


all'organismo, salvo casi specifici di intolleranza o interazione con altri


farmaci.


 


8.    


Le medicine non possono mica cambiare il pensiero.


Falso. Se è vero che non possono cambiare la personalità, è altrettanto


vero che devono cambiare il pensiero, perché è un pensiero che è sottostante al


Disturbo depressivo. Quando una persona depressa pensa di non avere via


d’uscita, che tutto andrà male, che non ci sono più speranze per lui, ci si


aspetta che la terapia modifichi questo pensiero “malato”. Ma questo è anche un tipico esempio di


come il cervello non sia preso in considerazione. Le medicine che agiscono sul


cervello evidentemente modificano le sue funzioni e di conseguenza il pensiero


che è una funzione mentale. Perché mai quindi medicinali per la psiche non


dovrebbero, tramite il cervello, agire sul pensiero?


 


9.     Non tollero i farmaci.


Detta così'


quest'affermazione ha poco senso, perché i meccanismi d’azione dei medicinali


sono talmente diversi tra di loro che non esiste un terreno comune di


non-tolleranza. E' quindi probabile che il problema sia relativo alla


predisposizione del soggetto che li assume, che è molto sensibile inizialmente


ad alcune classi di farmaci, o si agita all'idea di avere degli effetti


collaterali. Oppure, in realtà la persona non tollera un tipo di medicinali, ma


questo non significa che non ve ne siano altri disponibili che hanno meccanismi


diversi. Il non-tollerare inoltre non corrisponde ad un iniziale peggioramento,


fenomeno che invece è frequente prima che compaia la risposta


terapeutica.


                          Tratto da "Il sigatodi freud.com


 10. Per uscire dalla depressione ci vuole buona volontà buona volonta 2png


Falso. Diverse persone sostengono che sia sufficiente metterci un po’ di buona volontà per risolvere la


depressione, non capendo che in questo modo si acuiscono i sintomi della


depressione in chi ne soffre. La


volontà è la quantità di energia psichica di cui una persona dispone e la depressione è la mancanza di energia


psichica nella persona cioè è proprio il contrario. Chiedere a un


soggetto depresso di “sforzarsi”, di “mettercele tutta” è come chiedere ad una


persona con una gamba rotta di partecipare ad una gara di corsa ad ostacoli. La


cosa sarebbe sciocca, non credete? Lo stesso vale per la depressione, che


presenta come uno dei sintomi principali la mancanza di energia (anergia) sia


fisica che psichica. Se il paziente si convince di questo, aumenterà il suo


senso di disistima e di inadeguatezza, implementando i sintomi depressivi e la


sofferenza.


 


11. Se prendo gli psicofarmaci sono depresso


Falso. Anche questa


affermazione è un paradosso. Detta così sembra che sia il farmaco a determinare


l’esistenza della malattia, mentre è la presenza dei sintomi che determinano la


diagnosi e i farmaci ne sono semplicemente la cura. E’ come se si dicesse: “se


prendo l’insulina allora sono diabetico”. In realtà si dovrebbe affermare:


“Sono diabetico, quindi prendo l’insulina”.


 


12. Andare dallo psichiatra vuol dire essere matto, o essere considerato tale.


Falso. In molti ancora si vergognano di andare


dallo specialista. Lo psicologo e lo psichiatra sono i due professionisti


che si occupano di depressione, che la sanno riconoscere e curare. Non rivolgersi a loro quando se ne


hanno i sintomi è da matti, non il contrario.


 


13. Si vede subito quando una persona è


depressa


Falso. E’ una


convinzione diffusa che la depressione si legga in faccia. È senz’altro vero


che alcune persone non riescano a nascondere il loro umore, sia


nell’espressione che negli atteggiamenti ma è altrettanto vero che diversi depressi nascondono la loro


condizione, specie quando sono in pubblico o anche in famiglia. Basta


pensare ai personaggi pubblici che


soffrono di depressione: quando sono in televisione ad esempio nessuno


potrebbe pensare che siano depressi. Sottovalutare la depressione di un nostro


caro solo perché non la “si legge in faccia” è molto pericoloso, poiché si


rischia di sottovalutare una situazione potenzialmente pericolosa.


 


14. La depressione colpisce le persone


deboli


Falso. Un’altra


convinzione ridicola è che la depressione colpisca le persone deboli. La depressione è una malattia complessa che


può colpire chiunque, senza alcuna distinzione. Sentirselo dire, però, può


peggiorare notevolmente la situazione.


 


Ci sono varie


conseguenze a questo genere di pregiudizi.


La prima è il rischio che il paziente a causa di queste


false credenze, si sottragga a


cure corrette, opponendosi


all’assunzione di farmaci. La seconda, non meno grave è che il paziente assuma i farmaci in modo discontinuo


e/o li sospenda precocemente. Questo comportamento, a sua volta, ne


riduce l’efficacia implementando l’idea di inguaribilità.


A volte, ad un


livello più profondo, alcune persone hanno un legame con la propria malattia


tale che è entrata a far parte della loro personalità, ovvero del modo con cui


una persona si rappresenta la propria identità. Eckhart Tolle nel suo libro “Il


potere di adesso – Guida all’illuminazione spirituale” (Edizioni My Life, 2013)


afferma:


Ciò non significa


negare che potresti incontrare una forte resistenza interiore nel processo che


ti porta a recidere l’identificazione con il tuo dolore. Ciò


avviene soprattutto se hai vissuto per gran parte della tua esistenza


identificandoti strettamente con il tuo corpo di dolore emotivo e se hai


investito in quest’ultimo la totalità, o una porzione, della tua idea di


identità.


Ciò significa che


hai costruito un io infelice con il tuo corpo di dolore e ritieni che questa


finzione creata dalla mente sia la tua identità. In questo caso, la paura


inconsapevole di perdere la tua identità creerà una forte resistenza al


processo di cui stiamo parlando.


In altre


parole, preferirai soffrire ed


essere il corpo di dolore, piuttosto che compiere un salto nel buio e rischiare


di perdere il tuo io infelice ma familiare.”





 


 


Bibliografia


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Pointes, and Psychotropic Medications: A 5-Year Update. Psychosomatics.


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G.B. Cassano, a cura di: Manuale di Psichiatria- Ed.


UTET,1998


8.     C. Bellantuono, M Balestrieri: Gli


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1997


9.     www.medicitalia.it . Dr M. Pacini


10. Società Italiana du Epidemiologia


Psichiatric https//siep.it


11. F. Ravera https://cultura


emotiva.it/2018/psicofarmaci


12. www.depressione-ansia.it


     Iscritta all'Ordine dei Medici Chirurghi di Como n° 4981  -   Iscritta all'Albo degli Psicoterapeuti di Como

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