Soltanto qualche decennio fa, la
psichiatria e la psicologia erano tenute ben distinte, come se il loro campo di
applicazione fosse ben diverso. Gli psichiatri ritenevano che la psicoterapia
servisse solo da “supporto” o da “riabilitazione” al paziente, uno spazio dove
semplicemente parlare, al contrario, invece, della terapia farmacologica, che
curava il substrato organico-biologico della malattia psichica. D’altro canto,
gli psicologi vedevano nella terapia farmacologica solo la cura del sintomo e
non le vere cause psicologiche sottese al disturbo, contestando di fatto la necessità
della somministrazione farmacologica per lungo tempo. Sebbene per decenni
psichiatria e psicologia si siano confrontate sui rispettivi modelli
terapeutici, a volte con contrapposizioni radicali che lasciavano ben poco
spazio a qualsiasi possibilità di incontro, negli ultimi anni si è sviluppato
un pensiero condiviso sulla possibilità di adottare una terza via che
contempli una reale integrazione clinica dei due approcci. Affinché tale
integrazione sia il più efficace possibile è indispensabile comprendere a fondo
in che modo le due modalità terapeutiche agiscano, separatamente e
congiuntamente, così da poter pianificare interventi il più possibile
aderenti alle specificità dei singoli casi. Infatti, l’integrazione tra
farmacologia e psicoterapia implica l’ipotesi che i due approcci vadano ad
agire su piani simili ma non del tutto sovrapponibili (Keller et al., 2000),
ottenendo così risultati migliori rispetto all’impiego dei singoli interventi.
Già nel ’75, in un suo famoso studio, Luborskj affermòche gli interventi integrati ottengono risultati migliori rispetto ai singolitrattamenti e che, in quest’ultimo caso, la psicoterapia raggiunge risultatimigliori se paragonata al solo intervento farmacologico. Qualche anno dopo, anche Weissmann(1979, 1984) evidenziò una superiorità nell’efficacia delle terapie combinatesia rispetto ai gruppi trattati con una singola modalità che ad un gruppo dicontrollo.
Negli ultimi decenni gli studi si
sono evoluti grazie all’introduzione di nuove tecniche per “leggere” le
modificazioni del cervello durante la malattia e le modificazioni strutturali e
biochimiche dopo l’intervento terapeutico, sia farmacologico che
psicoterapeutico.
la patologia depressiva è un
fenomeno complesso e, di conseguenza, gli approcci terapeutici a questo
disturbo devono tenere presente tale complessità per migliorare la loro
efficacia. Ciò è possibile attuando interventi che prendano in esame i
molteplici piani che costituiscono l’individuo e che vengono compromessi dalla
depressione: quello sintomatologico, somatico, intrapsichico, relazionale e
sociale. Poiché l’impatto del disturbo psichico sull’equilibrio dell’individuo
avviene contemporaneamente su più livelli, questi devono essere considerati
come interdipendenti e non isolati tra loro. Inoltre, fra gli obiettivi
terapeutici, oltre alla remissione dei sintomi e ad un miglioramento della
qualità della vita dei pazienti, deve essere tenuta presente la possibilità di
influire sulle variabili che consentono di evitare, o per lo meno di ridurre,
le eventuali ricadute future.
Inoltre, sebbene sia stato
dimostrato che i farmaci siano in grado, da soli, di funzionare come sostituto
e riparatore biochimico delle carenze o degli eccessi del disturbo
psichiatrico, oggi è comprovato che la psicoterapia introduca cambiamenti
funzionali e strutturali del cervello che sono in rapporto con cambiamenti
nell’espressività di geni specifici (Kandel, 1983) e contribuisca ad aumentare
la compliance farmacologica, favorendo la continuità e la corretta assunzione
dei farmaci (Bellino et al., 2002). A sostegno dell’ipotesi che considera
l’esistenza di un doppio canale attraverso il quale agirebbero le diverse
modalità terapeutiche, rispettivamente gli interventi farmacologici e
psicoterapeutici, si aggiungono i risultati di uno studio di Goldapple et al.
(2004). Questa ricerca ha comparato, con l’utilizzo della tomografia ad emissione
di positroni (PET), le modificazioni nell’attività cerebrale di soggetti
depressi al termine di un trattamento farmacologico a base di paroxetina
rispetto a pazienti depressi trattati con una terapia cognitivo-comportamentale
per un ciclo di 15-20 sedute. E’ stato dimostrato che entrambi i trattamenti
provocano dei cambiamenti dell’attività cerebrale tali da ridurre la patologia
depressiva. Nello specifico, al termine dei trattamenti, si assisterebbe ad un
aumento dell’attività della regione limbica e della corteccia frontale. Ma
l’aspetto di maggior interesse evidenziato dalla ricerca riguarda il diverso
percorso seguito dai trattamenti nel raggiungere tale risultato: la
psicoterapia seguirebbe un percorso dall’alto verso il basso (top-down) aumentando
il metabolismo dell’ippocampo e del cingolo dorsale e diminuendo l’attività
della corteccia dorsale, mediana e ventrale. Tali cambiamenti sarebbero in
grado di modificare meccanismi come quelli della memoria e dell’attenzione che,
nel caso siano caratterizzati da errori (bias) affettivi e cognitivi, provocano
l’emergere ed il permanere della depressione.
Diversamente, la paroxetina
seguirebbe un percorso dal basso verso l’alto (bottom-up), modificando
direttamente lo stato biochimico del cervello, aumentando il metabolismo
dell’area prefrontale e diminuendo quello dell’ippocampo e di altre aree,
agendo così sulle aree legate alle emozioni fondamentali ad ai ritmi
circadiani. Gli Autori concludono indicando, quale fattore fondamentale e
critico per la remissione della malattia, la possibilità di una terapia
integrata in grado di produrre una modulazione complessiva del sistema
descritto piuttosto che un cambiamento nell’attività di una singola regione
cerebrale.
Come visto prima, il trattamento
farmacologico con antidepressivi è di provata efficacia nel risolvere gli
episodi acuti e nel prevenire ricadute fino a quando viene mantenuto. Tuttavia,
numerosi studi di follow-up, condotti su un totale di oltre 3000
pazienti con depressione maggiore, hanno mostrato che la percentuale di
ricadute dopo la sospensione è molto elevata (superiore al 40% in un anno).
Inoltre, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, la frequenza delle
ricadute dopo la sospensione non dipende dalla durata del trattamento, né dalla
gradualità della sospensione. L’assunzione a tempo indeterminato di farmaci
antidepressivi non appare una soluzione ottimale, mentre la strategia di
sospendere periodicamente il trattamento farmacologico per brevi periodi
comporta invece il rischio dell’instaurarsi di una resistenza al trattamento. Una possibile soluzione al problema è
l’associazione di una psicoterapia.
Alcuni studi controllati
randomizzati hanno mostrato che la combinazione di psicoterapia e trattamento
farmacologico è efficace nel ridurre il tasso di ricaduta, anche a distanza di
anni dal termine del trattamento. A nostro parere, l’adozione, o la
condivisione tra i curanti, di un modello derivato dalla medicina psicosomatica
che superi una troppo rigida dicotomia mente-cervello e che veda i due
trattamenti, opportunamente somministrati, come sinergici e non come
competitivi, potrebbe consentire in molti pazienti una proficua integrazione di
farmacoterapia e psicoterapia. Questo modello viene in considerazione alla luce
di due nozioni fondamentali: la prima, che le patologie psichiatriche, anche
quelle più evidentemente “reattive”, sono caratterizzate da modificazioni
biologiche; la seconda, che tutti i trattamenti, anche quelli psicologici,
hanno effetti biologici. Per quel che riguarda l’effetto neurobiologico della
psicoterapia cognitivo-comportamentale sulla depressione maggiore, oltre al già
citato studio di Goldapple e colleghi che ha evidenziato alcune differenze
nella modulazione dei circuiti cortico-limbici in pazienti depressi trattati
con paroxetina o con psicoterapia (Goldapple K et al., 2004), più recentemente,
Kennedy e collaboratori hanno approfondito ed evidenziato in modo più
specifico, tali differenze. E’ stata condotta una valutazione PET su pazienti
con depressione maggiore sottoposti a trattamento con venlafaxina o con
psicoterapia cognitivo-comportamentale (Kennedy S et al., 2007). Dai risultati
di questo studio è emerso che la risposta clinica a ciascuno dei due
trattamenti era associata a una diminuzione del metabolismo a livello della
corteccia temporale di destra. Alcune modificazioni del metabolismo, però,
differenziavano i soggetti che rispondevano alla psicoterapia rispetto a quelli
che rispondevano alla terapia farmacologica. Infatti, i pazienti per i quali la
psicoterapia era efficace, presentavano una modulazione maggiore delle
connessioni cortico-limbiche con modificazioni metaboliche a livello della
corteccia del giro del cingolo, un dato che non era mai stato riportato in
precedenza.
PRATICA CLINICA
Supportati dai dati scientifici,
nella pratica clinica quando è indicata o raccomandata la terapia integrata
farmacologica/psicoterapeutica?
Schematizzando, possiamo
affermare che
È auspicabile inviare in terapia TCC pazienti
in cura farmacologica se
-
Non
rispondono o rispondono solo parzialmente alla terapia farmacologica
Soprattutto
nelle depressioni lievi o moderate, nelle depressioni reattive o con comorbidità
con Disturbi di Personalità, spesso la terapia farmacologica reca solo un
parziale beneficio. Il paziente appare resistente al cambiamento, permangono le
ruminazioni, le tematiche autosvalutative, l’incapacità di relazionarsi in modo
sano con l’altro. Spesso si evidenziano relazioni familiari disfunzionali, dove
il sintomo depressivo assume valenze ricattatorie, di doppio legame, di
catalizzatore delle dinamiche patologiche. L’invio in TCC ha lo scopo di aiutare
il paziente a valutare il disturbo all’interno di una contesto disfunzionale
che va oltre il mero sintomo, ridimensionando nell’immaginario del paziente il
valore assoluto e salvifico del farmaco.
-
Continue
modificazioni della terapia antidepressiva per presenza di supposti effetti
collaterali o generiche “intolleranze” al farmaco
Gli
antidepressivi sono normalmente ben tollerati, pur potendo presentare,
soprattutto all’inizio della terapia, alcuni effetti collaterali. Tuttavia,
sempre dopo una attenta valutazione clinica e di laboratorio, lo psichiatra
deve porsi la domanda sul perché il paziente mostri la tendenza a dover continuamente
modificare il farmaco. Infatti questo spesso viene vissuto come qualcosa di
“estraneo” ed intrusivo che elicita fantasmi legati alla paura di “essere
matti” o di essere deboli. Altre volte, ad un livello più profondo, alcune
persone hanno un legame con la propria malattia tale che è entrata a far parte
della loro personalità, ovvero del modo con cui una persona si rappresenta la
propria identità. Eckhart Tolle nel suo libro “Il potere di adesso – Guida
all’illuminazione spirituale” (Edizioni My Life, 2013) afferma:
“Ciò non
significa negare che potresti incontrare una forte resistenza interiore nel
processo che ti porta a recidere l’identificazione con il tuo dolore. Ciò
avviene soprattutto se hai vissuto per gran parte della tua esistenza
identificandoti strettamente con il tuo corpo di dolore emotivo e se hai
investito in quest’ultimo la totalità, o una porzione, della tua idea di
identità.
Ciò significa
che hai costruito un io infelice con il tuo corpo di dolore e ritieni che
questa finzione creata dalla mente sia la tua identità. In questo caso, la
paura inconsapevole di perdere la tua identità creerà una forte resistenza al
processo di cui stiamo parlando.
In altre
parole, preferirai soffrire ed
essere il corpo di dolore, piuttosto che compiere un salto nel buio e rischiare
di perdere il tuo io infelice ma familiare.”
-
Miglioramento
del timismo
Il miglioramento
del timismo permette al paziente di entrare in contatto con i propri vissuti in
maniera diversa rispetto a prima. Ciò significa che, eliminati o attenuati i
sintomi depressivi, percepisca sé stesso e il contesto a lui vicino in modo
diverso e abbia bisogno di un supporto psicologico che lo aiuti nell’identificazione
e nella consapevolezza di un nuovo sé.
È auspicabile inviare allo
psichiatra quando
-
I sintomi
depressivi sono molto gravi,
La gravità dei
sintomi, come importanti idee suicidarie o anticonservative, l’anergia,
l’anedonia, la presenza di un delirio di rovina o di colpa o di deliri
incongrui all’umore, richiedono un intervento farmacologico immediato e mirato
o anche la valutazione eventuale di un ricovero
-
I sintomi
depressivi sono gravi e interferiscono col processo terapeutico
L’incapacità di
proiettarsi nel futuro, di avere una progettualità, l’appiattimento emotivo ma
anche più banalmente la difficoltà a parlare, possono interferire negativamente
con il processo terapeutico. In questi casi, la riduzione della sintomatologia
depressiva attraverso la farmacoterapia, può rendere più agevole il lavoro
dello psicoterapeuta.
-
Il
sintomo depressivo è utilizzato come resistenza al cambiamento
Quando un
paziente in terapia porta costantemente il sintomo e non si riesce a spostare
il focus su altro, ci si deve porre il quesito che questo atteggiamento non
nasconda una resistenza al cambiamento o una resistenza a porre l’attenzione su
altri temi emotivamente più dolorosi. La terapia farmacologica, in questo
contesto, può aiutare, riducendo il sintomo, a far prendere coscienza al paziente
di questo meccanismo.
In ogni caso, la presa in carico
di un paziente, soprattutto se complesso e difficile, appare migliore se si può
contare su un lavoro di équipe.
La terapia integrata, oltre che
per i motivi fin qui trattati, ha un grosso vantaggio anche per i terapeuti,
siano essi psichiatri o psicologi. La condivisione del caso, la possibilità di
lavorare in sinergia e di condividere aspetti e anche notizie che emergono
magari in un incontro con lo psichiatra ma non con lo psicologo e viceversa,
permette ai singoli professionisti di avere una visione del caso anche da
angolature differenti, di sentirsi supportati e di non sentirsi soli nella
gestione del caso. Le energie di ciascun
attore del processo terapeutico e cioè paziente, psichiatra e psicologo,
confluiscono in un’unica forma energetica, che è la spinta vitale verso la
guarigione.