FASE 2: QUALI PROBLEMI DOVREMO AFFRONTARE?


Stiamo uscendo dalla fase 2 della pandemia da Covid-19, quella della riapertura, seppur graduale. Ma è davvero tutto finito? Un recente articolo apparso su Lancet Psychistric, prospetta un'altra " pandemia", legata ai disturbi psichiatrici correlati al Coronavirus.

Tanto abbiamo letto sugli effetti dell’isolamento, sul rischio di sviluppare stati d’ansia, disturbi dell’umore, fino a veri e propri disturbi post traumatici da stress, non solo legati agli operatori sanitari. Questa previsione deve farci riflettere sulle strategie da mettere in atto per prevenire lo sviluppo di disturbi psichiatrici e ridurne l'incidenza.

Diversi sono i fattori che possono attualmente influire sul nostro benessere psicofisico. Innanzitutto lo stato di incertezza, che è ancora presente. La sensazione che, nonostante l’apertura, il rischio non sia finito, le notizie sulla possibile ripresa dell'infezione in autunno, il numero comunque ancora elevato di contagi in Lombardia, sono tutti fattori che non aiutano a ritrovare serenità ed equilibrio. L'incertezza, proprio perché impedisce il controllo, impedisce di progettare il futuro e di pianificare a lungo termine le nostre attività. Questo è spesso fonte d'ansia che, se non gestita in modo adeguato, rischia di configurarsi in un vero e proprio Disturbo d'ansia, come ad esempio un Disturbo d'Attacchi di Panico o tratti ipocondriaci. Tutto ciò è implementato anche dal distanziamento sociale che, sebbene meno restrittivo rispetto a prima, appare comunque penalizzare il bisogno di socialità proprio dell'essere umano. Lo stress accumulato durante il periodo do lockdown non andrà esaurendosi con l’apertura, ma farà sentire i suoi effetti nel tempo. Questo ci rende più fragili e vulnerabili: anche piccoli stress della vita quotidiana che in altri momenti non ci avrebbero richiesto particolari strategie di adattamento, ora possono diventare ingestibili. È come se l'asticella della nostra tolleranza allo stress si fosse abbassata, rendendoci maggiormente vulnerabili. L'aumento della vulnerabilità, a sua volta, può implicare che i meccanismi difensivi e adattativi che ognuno di noi sa mettere in atto, possano non essere più sufficienti a mantenere un buon equilibrio psichico. A questi fattori di ordine psicologico si possono aggiungere fattori sociali e, soprattutto, economici. Infatti, oltre alle preoccupazioni per il futuro, possono palesarsi oggettive problematiche di tipo economico: aziende che chiudono, artigiani e professionisti che si trovano in difficoltà, disoccupazione. Tale situazione può portare a sviluppare Disturbi dell'adattamento fino a vere e proprie sindromi depressive. Precedenti studi associati ad altre pandemie come la SARS nel 2002-2003 hanno dimostrato un aumento nella popolazione di disturbi depressivi anche gravi, d'ansia e del sonno. L'isolamento sociale era correlato allo sfasamento del ritmo sonno-veglia e dell'alimentazione. Ciò ha influito in particolare su quei pazienti affetti da Disturbo dell'alimentazione, con aumento degli episodi di abbuffare e condotte di eliminazione. Molti esperti e professionisti hanno spiegato quali strategie comportamentali mettere in atto per superare questi momenti di difficoltà: mantenere la cura del sé, mantenere ritmi di vita adeguati, praticare attività sportiva, mantenere i contatti sociali anche a distanza e tanti altri. Tutti questi consigli appaiono molto utili fino a quando i livelli di stress sono relativamente bassi e quindi ancora gestibili. Tuttavia altri sintomi non devono essere minimizzati. Quando una persona fa molta fatica o non riesce proprio ad alzarsi dal letto al mattino, quando si piange spesso, quando il pensiero diventa rimuginazione ossessiva su un aspetto della vita (ad esempio la paura ossessiva del contagio, il lavoro, la riduzione di disponibilità economica, la paura per il futuro tanto per citarne alcuni), allora bisogna intervenire tempestivamente. Soprattutto le rimuginazioni sono la spia che qualcosa non va. Queste si differenziano dalle "normali " preoccupazioni perché non portano alla risoluzione del problema, non sono cioè proattive, vitali per mettere in atto strategie utili. Esse rappresentano un dispendio enorme di energie psichiche e, tuttavia, si fossilizzano in un circolo vizioso che autoalimenta l'ansia e la frustrazione ma, soprattutto, chiude ogni possibilità di una visione oggettiva del problema. Tutto ciò determina, a cascata, un implemento della depressione e dell'ansia che, a loro volta, possono determinare l'insorgenza di un disturbo psichico.

In questa situazione, le strategie adattative comunemente messe in campo non sono più sufficienti e in questo caso sarebbe opportuno rivolgersi ad uno specialista. In alcuni casi una terapia farmacologica può essere utile a ritrovare una certa "distanza emotiva" dal problema, valutarlo in modo più obiettivo e affrontarlo in modo più funzionale. Per altri, in alcune situazioni psicopatologiche, pensare che basti la "buona volontà " o "l'impegno" è estremamente sbagliato: quando si vive un disturbo depressivi la buona volontà non serve proprio perché uno dei sintomi sono l'anergia e l'apatia. Sarebbe come chiedere ad una persona con la gamba fratturata di metterci impegno per fare una corsa a ostacoli! Al contrario, ove lo specialista ne ravveda la necessità, una terapia farmacologica magari anche associata a una presa in carico psicologica, può fare la differenza. Ricordate che chiedere aiuto non è un segno di debolezza, ma di forza e di amore verso se stessi.