Depressione nell'anziano: cosa è cambiato con la pandemia?

PERCHE’ PARLARE DI PSICOGERIATRIA?

E’ stato previsto che In Europa l’aumento della popolazione over 65 anni dal 22% dell’anno 2000 aumenterà al 30% nel 2025. In Italia, i soggetti over 65 rappresenteranno, nel 2065, circa il 33% della popolazione totale, con l’incremento esponenziale delle patologie età-correlate, quali demenza, malattie cardiovascolari, tumori e depressione. Si stima che nel 2020 la numerosità dei casi di depressione sarà seconda solo alle patologie cardiovascolari. Tuttavia spesso è difficile porre una diagnosi di depressione nel paziente anziano poiché i sintomi si presentano in una dimensione sotto-soglia e non si è ancora sviluppata una sensibilità clinico-psichiatrica del disturbo depressivo nelle fasce di età più avanzate che esca dallo stereotipo della flessione timica legata al concetto di “fine vita”. Spesso è proprio il caregiver, solitamente il coniuge o un figlio a volte egli stesso over 60, che richiede aiuto trovandosi solo e in grave difficoltà nella gestione dell’anziano, mettendo a volte in luce relazioni disfunzionali precedenti il processo di invecchiamento e per lungo tempo sopite.

 LA DEPRESSIONE NELL’ANZIANO

Prevalenza

La prevalenza della depressione maggiore negli anziani varia tra il 2% ed il 4% nei soggetti viventi in comunità, e il 12% tra i pazienti ricoverati in reparti ospedalieri, ed il 16% tra i pazienti geriatrici residenti in istituti di lungodegenza. La depressione in età senile è associata a un aumento del rischio di malattie cerebrovascolari e, con maggiore probabilità rispetto alla depressione che insorge nei giovani, è associata a importanti disturbi della sfera cognitiva. La depressione causa anche in questa fascia d'età una compromissione funzionale significativa sul piano fisico, familiare, sociale ed un'alterazione della percezione della propria salute; è associata più frequentemente a dolore fisico e costringe i pazienti più spesso a restare a letto a causa del malessere rispetto a malattie come l'ipertensione, il diabete, l'artrite e le pneumopatie croniche che pure sono frequenti in questa epoca della vita. 

 

DEPRESSIONE MAGGIORE (DM)

Nosografia e clinica della depressione nell’anziano

Sebbene l’approccio categoriale del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders dell’American Psychiatric Association, giunto alla quinta edizione (DSM-5), mal si presti a “etichettare” l’ampio ventaglio delle espressioni sintomatologiche della depressione senile, esso rappresenta comunque un punto di riferimento culturalmente imprescindibile.

 Secondo il DSM-5 i disturbi depressivi dell’anziano includono il disturbo depressivo maggiore (depressione maggiore - DM), il disturbo depressivo persistente (distimia), il disturbo depressivo indotto da sostanze/farmaci, il disturbo depressivo dovuto a un’altra condizione medica, il disturbo depressivo altrimenti specificato, il disturbo depressivo senza specificazione. Da notare che la cosiddetta “depressione minore”, definita operativamente nell’appendice del DSM-IV dalla presenza di 2-4 sintomi, anziché dei 5 o più richiesti per la diagnosi di DM, è stata depennata nel DSM-5 e non è più pertanto identificabile come una diagnosi formale.

 UNA DIAGNOSI COMPLESSA

A rendere complessa la diagnosi di depressione nell’anziano contribuiscono molti fattori psicologici, relazionali e socio-ambientali: la rarefazione delle reti sociali, i lutti, la solitudine non voluta dei luoghi di cura, la deafferentazione sensoriale (quella dovuta a malattie degli organi di senso, in particolare vista e udito), l’embricarsi di sintomi fisici con quelli psicologici, la tendenza a mascherare questi ultimi con problemi somatici, la compresenza di patologie croniche, la disabilità, il combinarsi di deficit cognitivi con le fragilità che nell’età avanzata tendono ad accumularsi. Gli stressors a significato depressogeno più frequenti in età avanzata sono rappresentati dai problemi coniugali o familiari, che includono separazioni o difficoltà relazionali con i figli, dal pensionamento e dalla perdita di ruolo sociale, nonché dal cambio di residenza. La condizione più frequente in assoluto è la comparsa di una malattia fisica con conseguente disabilità, perdita dell’autonomia e dell’indipendenza.

 A fronte della elevata prevalenza, gli studi presenti in letteratura indicano che la depressione nell’anziano è riconosciuta solamente in circa la metà dei casi. I motivi sono molteplici :

– nel paziente anziano la frequente comorbilità fa sì che i sintomi ed i segni propri della depressione vengano a sovrapporsi con quelli delle altre malattie coesistenti, complicando di conseguenza il processo valutativo;

– nel paziente anziano la sintomatologia depressiva è spesso caratterizzata dalla prevalenza di sintomi somatici (astenia, anoressia, insonnia, dolore, stipsi ecc.) ed ipocondria rispetto a quelli della sfera psicoaffettiva (tristezza, pessimismo, facilità al pianto, senso di colpa, ecc.);

 – la presenza di condizioni socio-ambientali negative (pensionamento, solitudine, vedovanza, cambiamento di residenza ecc.);

– numerose malattie internistiche e neurologiche di comune riscontro in età avanzata comprendono nel loro quadro fenomenologico disturbi depressivi;

– numerosi farmaci inducono depressione o contribuiscono alla sua espressività clinica;

– l’anziano spesso sottostima i propri disturbi psicologici attribuendoli alla molteplicità dei problemi fisici che lo affliggono.

Come già sottolineato, dal punto di vista clinico la depressione può presentarsi nell’anziano con un quadro sindromico diverso da quello proprio del soggetto giovane-adulto: i sintomi psico-affettivi sono sostituiti (o mascherati) da quelli somatici. Questa presentazione clinica porta spesso il paziente a consultare numerosi specialisti e, di conseguenza, ad essere sottoposto a continui nuovi accertamenti dai quali, data la coesistente comorbilità, qualche malattia emerge inevitabilmente portando il soggetto ad essere sottoposto a trattamenti che non tengono conto dello stato depressivo che ne è all’origine. Altri aspetti che possono condurre il medico ad una mancata diagnosi risiedono in altri aspetti che è bene sottolineare: l’anziano spesso non riferisce disturbi del tono dell’umore in quanto li considera conseguenza inevitabile dell’invecchiamento; – l’anziano, pur consapevole che le sue sofferenze potrebbero essere dovute alla depressione, evita volutamente di parlarne al medico, vuoi per il timore che le sue malattie, “quelle vere” del corpo, non siano adeguatamente considerate, vuoi per non essere definito un malato immaginario o di interesse psichiatrico in quanto condizione nei confronti della quale l’anziano prova disagio e vergogna, soprattutto se basso è il suo livello di istruzione.

Negli anziani con un Episodio Depressivo Maggiore, i disturbi della memoria possono rappresentare la lamentela principale e possono essere erroneamente interpretati come segni iniziali di demenza ("pseudodemenza"). Quando l'Episodio Depressivo Maggiore viene trattato con successo, i disturbi della memoria spesso scompaiono completamente. Comunque, in alcuni individui, particolarmente nelle persone anziane, l'Episodio Depressivo Maggiore può rappresentare la manifestazione iniziale di una demenza irreversibile. Infatti uno dei maggiori problemi diagnostici in psichiatria è differenziare, nell'anziano, la depressione maggiore dalle forme moderate di malattia di Alzheimer. Nella differenziazione in questione i sintomi clinici mascherano considerevolmente la diagnosi e spesso solo il follow-up consente la discriminazione tra le due. Nella depressione maggiore possono quindi essere presenti deficit in vari domini cognitivi. D'altro canto i sintomi della Depressione Maggiore quali umore depresso, apatia, ritiro sociale, perdita d'interessi ricorrono pure in pazienti con Alzheimer da lieve a moderato. L'apatia per es., è stata rilevata nel 37% dei pazienti con Alzheimer così come nel 32% dei pazienti depressi non dementi. Una corretta e precoce diagnosi sia di depressione maggiore che di malattia di Alzheimer è cruciale per realizzare una terapia specifica e garantire una prognosi migliore.

 LA DEPRESSIONE SOTTOSOGLIA NELL’ANZIANO

Nella pratica clinica, tuttavia, possiamo riscontrare quadri sintomatologici caratterizzati fondamentalmente da sintomi diversi dall’umore depresso, che non è il primo sintomo riportato.


Definizioni

Il termine “depressione sottosoglia” (DSS) comprende, in genere, tutte quelle forme depressive che si caratterizzano per un numero o una durata di sintomi insufficienti a raggiungere il livello di una delle diagnosi formali del DSM-5, come sopra elencate, e che, d’altra parte, si accompagnano a una sofferenza soggettiva e a una significativa compromissione nel funzionamento sociale.

Epidemiologia

Negli studi effettuati sulla popolazione anziana la DSS, includendo con questo termine sia la cosiddetta “depressione minore” secondo il DSM-IV, sia le forme subsindromiche, ha una prevalenza 2-3 volte più elevata rispetto alla DM. Il decorso della DSS risulta più favorevole rispetto a quello della DM, ma è lontano dall’essere benigno, con un tasso annuale mediano di remissione sintomatologica completa pari solamente al 27%. Circa l’8-10% delle persone anziane con DSS sviluppano una DM nell’arco di un anno. La DSS è risultata associata alle stesse conseguenze negative della DM, inclusi un ridotto benessere e una ridotta qualità della vita, un peggioramento dello stato di salute generale, una maggiore disabilità e un incremento di morbilità e mortalità .

 Quadri clinici

Le presentazioni cliniche della DSS appaiono eterogenee e scarsamente standardizzabili, variando a seconda dei campioni e degli strumenti di valutazione utilizzati e nelle quali, di volta in volta, l’anedonia, la tristezza, l’apatia, l’insonnia e l’ansia/agitazione possono rivestire il ruolo chiave. 

 

DEPRESSIONE E PANDEMIA

 E’ stato condotto uno studio in Spagna per valutare l'impatto della nuova pandemia di COVID-19 sulla salute mentale delle persone sopra i 60 anni rispetto a quelle sotto i 60 anni. Nel complesso, i risultati mostrano che i soggetti sopra i 60 anni sono meno vulnerabili dei partecipanti più giovani alla depressione e allo stress acuto, inoltre, non hanno mostrato differenze nei livelli di ansia durante il picco della pandemia rispetto al gruppo under 60 anni. Da questo studio emerge che le persone anziane non possono essere considerate particolarmente vulnerabili per lo sviluppo di ansia, depressione e stress acuto durante il picco della pandemia di COVID-19 in Spagna.

Senza dubbio, la popolazione anziana è stata la più colpita. Per questo motivo, è necessario ricercare spiegazioni plausibili per questo risultato inaspettato. Una possibile ipotesi potrebbe essere che gli anziani in Spagna avessero una resilienza maggiore rispetto ai più giovani. Pertanto, gli anziani spagnoli avrebbero potuto incontrare maggiori difficoltà personali per tutta la vita rispetto alle persone non anziane, come le difficoltà economiche e sociali associate al periodo spagnolo del dopoguerra (1939-1960), che avrebbero potuto aumentare la loro capacità di affrontare lo stress causato dalla pandemia di oggi.

Ci sono anche studi che evidenziano una buona capacità di reazione degli anziani ad alcuni fattori di stress. Secondo uno studio di Psicologia dell’università della British Columbia di Vancouver, gli anziani, nonostante la maggiore vulnerabilità fisica, durante la prima fase della pandemia hanno mostrato un migliore equilibrio rispetto ai giovani, facendosi meno travolgere da ansie, stress e preoccupazioni.

Alcune ricerche pubblicate di recente dimostrano come, all’aumentare dell’età, vi sia una diversa e migliore regolazione delle emozioni e quindi una maggiore riserva di resilienza. Questo tuttavia, non significa che non vi siano anziani portatori di sofferenza, o che non abbiano mostrato in passato o non abbiano tuttora paure e preoccupazioni legate alla situazione emergenziale in corso.

La necessità di ridurre le interazioni sociali ha drammaticamente ridotto lo “spazio vitale” di molti anziani, con un impatto negativo non solo sullo stato di adattamento fisico, ma anche sul tono dell’umore e a volte, sulla tenuta cognitiva.

Nel corso dei mesi sono emersi negli anziani, sintomi come stress, ansia, sofferenza, disagio psicologico dovuto all’ interruzione repentina dei rapporti sociali, dei legami familiari, del contatto fisico. Essi sono importanti non solo per la prevenzione del declino cognitivo e del benessere fisico,  ma anche per la percezione di sé ovvero di essere ancora una persona di valore e di senso per gli altri.

FATTORI PREDITTIVI DI SVILUPPO DIANSIA E DEPRESSIONE NEGLI ANZIANI DURANTE LA PANDEMIA

ELEMENTI PROTETTIVI DEI DISTURBI D’ANSIA E DEPRESSIVI DURANTE IL COVID

  • Capacità di usufruire delle tecnologie
  • Presenza di una rete sociale di “pari”
  • Stabilità economica
  • Buon adattamento ai cambiamenti
  • Aiuto economico ai figli/nipoti
  • Adattamento pre - covid alla solitudine
  • Capacità di pensare al futuro
  • Progettualità a breve termine
  • Capacità di distinguere la solitudine dall’isolamento


ELEMENTI PREDITTIVI DI UN DISTURBO D’ANSIA E DEPRESSIVO DURANTE IL COVID

  • Problemi economici
  • Rifiuto o difficoltà ad usare le nuove tecnologie
  • Tratti dipendenti o modalità relazionali di dipendenza nei confronti dei familiari
  • Scarso adattamento al cambiamento
  • Insufficienti capacità di coping/percezione della solitudine alterata
  • Pregressa o attuale diagnosi di ansia e/o depressione
  • Situazioni conflittuali familiari precedenti
  • Presenza di disturbi organici invalidanti e/o gravi


Gli anziani, infatti, che ancor prima della pandemia avevano subito esperienze di perdita o lutti di figure affettivamente importanti hanno sofferto maggiormente dell’isolamento. Gli anziani che sono stati maggiormente supportati dalle famiglie, dai figli e nipoti, o dalle reti sociali aggregatesi spontaneamente, come le reti condominiali, o parrocchiali stanno resistendo meglio al protrarsi delle misure restrittive. Molti anziani, stimolati da una accresciuta necessità, hanno anche iniziato a scoprire i vantaggi che la tecnologia può portare alle loro particolari esigenze, pur di restare in contatto con i figli, i nipoti e gli amici.

LA POST PANDEMIA

Un mondo finora rimasto inesplorato che ha riservato sorprese e, in alcuni casi, ha cambiato in meglio il loro stile di vita. In ogni caso dobbiamo prepararci al post pandemia. Non sempre, infatti, le persone esprimono il malessere durante l’evento traumatico, alcuni effetti potrebbero esplodere anche dopo. In altri termini la psicopandemia può essere rappresentata da un iceberg con la parte più piccola e più visibile caratterizzata da disturbi psichici più gravi e una parte molto più vasta di malessere e disagio psicologico, meno visibile ma non meno importante.

Inoltre si sta teorizzando su una forma meno evidente di sofferenza psichica: l’emozione del 2021 è il “languishing” che ha il senso di languire in uno stato di malessere, caratterizzato da stagnazione, senso di vuoto, mancanza di voglia di fare e di prospettive. “È come se si guardasse la vita da un finestrino appannato, il languishing spegne le motivazioni e distrugge la capacità di concentrazione” teorizza lo psicologo Adam Grant. In via generale si può ipotizzare che il principale pericolo insito in questo status emozionale sia l’inconsapevolezza. “se non si riesce a percepire se stessi come in uno stato di sofferenza, si può scivolare lentamente nella solitudine, risultando indifferenti alla propria indifferenza. E quando non si riesce a capire che si sta soffrendo, non si può cercare aiuto né fare molto per aiutare se stessi”.

Un antidoto al “languishing” esiste. E’ necessario infatti, dare un nome a questa emozione, capire che non si tratta di una condizione che appartiene al singolo, ma che, al contrario, è un qualcosa che in molti stanno sperimentando. Per moltissimi anziani il rischio più grande è la difficoltà a poter tornare a quelle condizioni funzionali, cognitive e psico sociali precedenti la pandemia. Il fattore tempo, per gli anziani è costantemente elemento di attenzione. Per gli anziani l’idea del futuro è differente rispetto ai giovani, la vita va avanti in modo naturale giorno per giorno.

La persona anziana sa che il tempo a sua disposizione non è infinito, e così andrebbe aiutata a modificare le priorità e cerca di dare un significato al presente, attraverso attività cognitive e sociali che obblighino a ritornare attivi, a tenere la mente impegnata, a seguire attività creative, a svolgere regolare attività fisica,  di volontariato, che aiutino l’anziano a sentirsi utile. Gli anziani, così come i giovani andranno aiutati a tornare a riappropriarsi di una ri-socializzazione che abbassi lo spettro della paura. E’ la mancanza di relazioni generative che amplia lo spettro della solitudine, amplificando vissuti di abbandono, paura di ammalarsi e di perdere il controllo sulla propria vita.

Come possiamo contrastare questa assenza di gioia, questa stasi, dunque? In inglese, c’è la parola “flow”, “flusso”/“fluire”, che potrebbe essere proprio l’arma giusta contro l’emozione che spinge le persone a “languire” ovvero a smettere di progettare il futuro. Con questo termine “flow” si intende quello stato di abbandono che si sperimenta quando si è completamente assorbiti da qualcosa, quel momento in cui si perde la cognizione del tempo, dello spazio. Qualsiasi attività che porti a concentrare la mente verso qualcosa di nuovo, riattiva le mappe cognitive. E

CENNI DI TERAPIA

I dati relativi al trattamento della depressione senile riguardano quasi esclusivamente la DM, mentre la DSS, nonostante sia relativamente frequente e risulti associata a esiti negativi, risulta ampiamente sotto studiata. Nel frattempo l’operatività dei clinici deve essere basata:

a) sull’individuazione della DSS con l’osservazione di aspetti clinici e relazionali;

b) sulla messa in atto di interventi terapeutici non farmacologici;

c) su una scelta farmacoterapeutica che privilegi composti con efficacia sulle dimensioni sintomatologiche prevalenti nel singolo soggetto.

 

TRATTAMENTO DELLA DEPRESSIONE NELL’ANZIANO

La scelta di un antidepressivo dovrà necessariamente tenere conto della risposta a precedenti trattamenti, delle eventuali farmacoterapie concomitanti, del rischio potenziale di sovradosaggio, nonché del tipo di depressione (ansiosa, inibita, psicotica, bipolare, ecc.). Il trattamento con antidepressivi si dimostra efficace anche in quadri di comorbilità con patologie sistemiche, nei quali richiede però una maggiore attenzione al fine di evitare che la terapia stessa possa determinare un peggioramento della malattia o che possa indurre effetti collaterali rischiosi. In particolare, composti con marcata azione anticolinergica o antiadrenergica – come i triciclici – possono peggiorare le demenze, le cardiopatie, il diabete e la malattia di Parkinson. È importante, infine, minimizzare le interazioni farmacologiche (farmacodinamiche e farmacocinetiche), particolarmente probabili negli anziani per la frequente politerapia.

Elementi per valutare la gravità della depressione e la necessità di un trattamento farmacologico.

1 L’entità della deflessione timica e/o dell’anedonia

2 La comparsa o il peggioramento di disturbi del sonno, dell’appetito, astenia /apatia/anergia

3 Variazioni circadiane della sintomatologia con peggioramento al mattino

4 La presenza di agitazione o rallentamento psicomotorio

5 Una durata dell’episodio di almeno 2 settimane

6 Sintomi psicotici concomitanti

 

L’antidepressivo ideale per l’anziano dovrebbe soddisfare questi cinque punti:

1. efficacia terapeutica documentata;

2. tollerabilità e sicurezza;

3. assenza di interazioni farmacologiche;

4. maneggevolezza d’impiego;

 5. sicurezza in overdose   

All’interno della classe degli SSRI, sia la fluoxetina, sia la paroxetina, sono poco raccomandate per la terapia antidepressiva negli anziani: la prima per la lunga emivita e per i prolungati effetti indesiderati; la seconda per gli eventuali effetti anticolinergici. Citalopram, escitalopram, sertralina (a basse dosi), venlafaxina, mirtazapina, bupropione e trazodone offrono, tra gli antidepressivi di seconda generazione, il miglior profilo per quanto riguarda le interazioni farmacocinetiche. Al contrario, fluoxetina, fluvoxamina e paroxetina presentano un rischio maggiore di interazioni farmacocinetiche. Gli AD triciclici vengono attualmente indicati come terapia di seconda linea nel trattamento della depressione senile, in considerazione del rapporto rischio-beneficio meno favorevole. In particolare, i composti aminici secondari quali nortriptilina e desipramina, rappresentano i triciclici d’impiego più documentato negli anziani grazie alla minore collateralità di tipo autonomico; sono invece sconsigliati i composti aminici terziari (amitriptilina, clomipramina, imipramina, ecc.)

 

Dosaggi

La dose iniziale raccomandata degli antidepressivi nell’anziano dovrebbe corrispondere alla metà di quella prescritta in un adulto giovane, al fine di minimizzarne il rischio di eventuali effetti collaterali. L’incremento di questi ultimi è verosimilmente dovuto alla riduzione del metabolismo epatico in età senile, a malattie somatiche intercorrenti e a interazioni farmacologiche. Oltre a seguire la tradizionale raccomandazione start low and go slow l’obiettivo del clinico deve essere quello di incrementare il dosaggio dell’antidepressivo regolarmente a intervalli di 1-2 settimane, a seconda della tollerabilità individuale, con l’obiettivo di raggiungere una dose terapeutica il più rapidamente possibile, comunque entro un mese. 

La pratica clinica: l’approccio dimensionale

Nella pratica clinica la scelta dell’antidepressivo non può non tener conto del dato che ansia e insonnia appaiono tra le dimensioni psicopatologiche più frequenti della DSS nell’anziano

Trazodone cloridrato è considerato il capostipite di una classe di farmaci antidepressivi denominata SARI (Serotonin Antagonist and Reuptake Inhibitor). Oltre all’azione serotoninergica il trazodone ha un’azione antagonista sui recettori H1 e a1-adrenergici. Nell’attuale pratica clinica, soprattutto se riferita al paziente anziano, trazodone tende ad essere più frequentemente prescritto a bassi dosaggi (50-150 mg/die), già dimostrando una rapida efficacia nel miglioramento sintomatico della depressione senile associata ad ansia, insonnia e/o disturbi comportamentali in corso di demenza. La compromissione del ritmo sonno-veglia tipica del paziente depresso rappresenta una condizione particolarmente stressante per l’omeostasi funzionale dei neuroni. Ripristinare un fisiologico ritmo sonno-veglia svolge quindi un ruolo cruciale nella modulazione della sfera cognitiva, affettiva ed emozionale. La peculiare efficacia di trazodone nel normalizzare il ritmo sonno-veglia nel paziente depresso, già a basso dosaggio, rappresenta un importante valore aggiunto utile a rendere più efficace, soprattutto a livello cognitivo, il trattamento a lungo termine dei disturbi depressivi.

Non va sottovalutato come l’impiego di trazodone a livello sintomatico si traduca spesso, nella pratica, in un’efficace alternativa alle BDZ, delle quali sono noti gli svantaggi, particolarmente in ambito psicogeriatrico.

Il composto è ben tollerato e determina raramente sintomi quali disfunzione sessuale, aumento di peso, attivazione e/o viraggi maniacali; non causa, in genere, effetti extrapiramidali o anticolinergici di rilievo e non è controindicato nel glaucoma e nei disturbi minzionali.

 

LA FAMIGLIA DEL PAZIENTE ANZIANO E LA FIGURA DEI CAREGIVER

 

La famiglia, come ogni altro organismo, non è una struttura statica, ma dinamica, in continua evoluzione. Da un punto di vista funzionale, le relazioni familiari possono essere descritte in termini di ruoli che ogni membro ha nei riguardi dell’altro. Il ruolo di un soggetto è complementare al contro-ruolo di uno o più membri; ciò implica che se il ruolo e il contro-ruolo rappresentano un buon equilibrio, la relazione tende ad essere armoniosa. Nel corso degli anni la famiglia va incontro a diverse modificazioni della struttura e della funzione (quando i figli crescono, escono di casa o quando un membro muore). La famiglia, quindi, passa attraverso diverse fasi che si susseguono: pregenitoriale, genitoriale, postgenitoriale e la fase dell’invecchiamento della famiglia. Di conseguenza, le relazioni tra i membri della famiglia e i loro ruoli cambiano continuamente.

Viene spesso ritenuto che un figlio con buone relazioni coi genitori, quando diventerà adulto, manterrà tali relazioni buone. Questa è una valutazione semplicistica. Spesso i genitori anziani rappresentano un forte fattore di responsabilità per i figli. Questi prendono coscienza del fatto che i loro genitori non sono onnipotenti e che le qualità che hanno loro attribuito da piccoli non sempre corrispondono al vero. Ne consegue che la capacità di relazionarsi col proprio genitore come un adulto maturo rappresenta la vera “emancipazione” del figlio e la prova di aver raggiunto una propria identità. In questo modo, i cambiamenti psicologici che riflettono uno specifico cambiamento di ruolo, fanno parte di un processo di sviluppo che conduce alla filial maturity.

Questa transizione implica, inoltre, un rovesciamento dei ruoli che spesso può causare notevoli tensioni. Il figlio adulto non vuole assumere il ruolo di genitore nei confronti dei suoi stessi genitori: sono quelle persone tendenzialmente dipendenti, insicuri e necessitano di qualcuno che al loro fianco che sia forte e che possa dare loro un supporto. di conseguenza può accadere che l’invecchiamento del genitore non sia permesso, l’idea della morte rifiutata e la capacità di supporto invalidata. Sono quei figli che appaiono spesso aggressivi o insofferenti verso le lamentele del genitore o i piccoli problemi fisici. Questa intolleranza, a sua volta, porta all’aumento dei sensi di colpa nei confronti dei genitori, bassa autostima e rinforzo del senso di dipendenza.

Dall’altra parte, si può assistere quando il genitore anziano rimane tenacemente aggrappato ad un insieme di ruoli ormai superati o ad una obsoleta immagine di sé; così egli continua a vedersi come un capo famiglia le cui decisioni non devono essere messe in discussione.

In un interessante studio longitudinale su 14 anni del 1993 di Field erano state valutate la quantità e la qualità dei contatti tra membri della famiglia e genitori anziani e in che modo gli anziani vivono soggettivamente tali contatti in riferimento allo stato di salute. I risultati furono opposti a quanto atteso. Infatti   emerse che all’inizio dello studio, lo stato di salute era minimamente predittivo di contatti con i membri della famiglia, mentre 14 anni dopo la salute si era rivelata il più forte fattore predittivo della quantità dei contatti. Ma sorprendentemente un buono stato di salute e non un cattivo stato di salute aveva portato ad una maggiore quantità dei contatti, Questo risultato potrebbe sconcertare, poiché ci si aspetterebbe che la mobilitazione di familiari e amici aumenti con la presenza di malattie nell’anziano. In realtà, i genitori anziani che hanno bisogno di maggiore assistenza, valutano l’atteggiamento dei loro figli, mutato dall’affetto al dovere e all’obbligo e quindi contrastano il loro aiuto e non ritengono i contatti soddisfacenti.

La assistenza di una persona anziana con uno stato di salute che va a via via deteriorandosi nel tempo richiede risorse emotive notevoli . Già la malattia del proprio caro a prescindere dall’età crea una crisi ripercuote su tutta la struttura familiare a maggior ragione la malattia di una persona anziana pone familiare davanti allo spettro della morte e alle difficoltà oggettive di una adeguata assistenza. Vedere il proprio padre e la propria madre spegnersi gradualmente carica il figlio di un peso emozionale difficile da reggere in questo modo si fa ricorso alla istituzionalizzazione OA un’assistenza domiciliare che assicurando un’obiettiva migliore cura permette al figlio di vivere meno a contatto col decadimento fisico e in alcuni casi anche mentale del genitore e di conseguenza di reggere meglio la situazione. Oltre a questi aspetti psicologici ne scorgiamo un altro , che potremmo definire sociale, che può aiutarci a capire la correlazione tra salute contatti familiari qui sopra riportata. Se prendiamo in considerazione il gruppo di anziani di età compresa tra i 65 e i 74 anni possiamo ragionevolmente valutare che l’età media dei figli sia compresa tra i 40 e i 55 anni cioè un’età in cui la carriera ti lavorativa e al culmine e in cui la famiglia acquisita ha esigenze sempre più importanti e preminenti. Il cattivo stato di un genitore anziano con tutte le conseguenze che esso comporta richiede un impegno e una continuità che spesso il figlio anche volendolo non può fornire. Quando poi l’anziano e ultraottantenne caso che si verifica sempre più frequentemente oggi spesso il figlio e a sua volta già anziano potendo avere più di 65 anni ciò rende l’assistenza ancora più problematica e difficile. D’altronde il bisogno di libertà dell’ anziano e il rifiuto dell’assistenza data dai figli è vissuta come obbligo legittimano un desiderio di reciproca indipendenza che si traduce nella decisione di vivere separatamente pur mantenendo contatti e rapporti assidui. Questo tipo di relazione permette di conservare il senso della famiglia, garantisce il mantenimento dei legami affettivi e nel contempo, realizzando una situazione di intimità a distanza, consente all’anziano di soddisfare il suo desiderio di attenzione. I tal modo si evita che i legami affettivi sì deteriorino attraverso l’esasperazione di conflittualità che di solito non vengono apertamente espresse oh agite ma generano correnti pulsionali latenti e sentimenti di ambivalenza. E necessario comunque prendere in considerazione anche le relazioni familiari antecedenti il processo di invecchiamento.

Ad esempio alcuni studi hanno rilevato che i figli che hanno percepito da piccoli un rifiuto da parte dei genitori tendono ad esprimere una minore preoccupazione rispetto al benessere dei loro genitori e una minore esigenza di rimanere in contatto con essi. Allo stesso modo rapporti di dipendenza con tematiche auto valutative da parte dei genitori nei confronti dei figli tendono ad aumentare la presenza del figlio stesso ma con modalità disfunzionali.

Infine e interessante valutare se il benessere dell’anziano dipende unicamente dal processo di senescenza in sé e dai rapporti coi propri familiari oh se vi sia qualche altro fattore che abbia potuto influenzare il benessere di una persona anche nella vecchiaia. La teoria dell’ attachment è stata sviluppata da Bowlby nel 1972-1973. In accordo con la teoria dell’ attachment un individuo sviluppa dei modelli interni che funzionano sul se e sugli altri basati sulle originali relazioni con la figura guida. Quando i genitori ora figura guida sono disponibili e rispondono alle necessità dei figli lo sviluppo individuale si indirizza verso una maggiore fiducia in sé stessi Enel proprio valore e verso un’adeguata funzione sociale Di conseguenza un Secure attachments è associato ad una stabilità emozionale in ogni periodo della vita. Quando invece abbiamo un insicure attachments ci troviamo di fronte ad una mancanza di fiducia in sé e negli altri. La conseguenza e che in persone con un Secure attachment aumenta la capacità di coping oh resilienza nelle varie fasi della vita e quindi anche nella senescenza. Da questo primitivo rapporto si sviluppano altre relazioni che coinvolgono figli parenti nipoti amici e che determinano un buon invecchiamento. Il benessere emotivo ed esistenziale dell’anziano dipende dunque dal suo grado di attività dal coinvolgimento nelle relazioni sociali dal mantenimento di interessi e soprattutto dalla capacità di adattarsi alle limitazioni della vecchiaia ma anche da saper cogliere i lati positivi che come in tutte le età questa è implica parentesi ad esempio maggiori libertà maggiore indipendenza chiusa parentesi.

 

COVID E FAMIGLIA

La attuale pandemia ha, da un lato, permesso un riavvicinamento emotivo nella lontananza. La preoccupazione per il contagio, l’impossibilità di vedere i propri genitori anziani, il dover provvedere a distanza dei bisogni primari (spesa, farmacia) hanno messo in luce una preoccupazione autentica che l’anziano in molti casi ha percepito. Per contro, dove i rapporti erano già disfunzionali, il Covid ha implementato tensioni e disagi. Ciò che ha fatto davvero la differenza è stata la capacità di adattamento e l’interesse dell’anziano, che, per chi ha voluto, è stato spinto ad affidarsi alle nuove tecnologie (es, le video chiamate, l’uso de C e del cellulare). Inoltre, in alcuni casi il soggetto anziano è stato in grado di riappropriarsi di un ruolo nel momento in cui ha dovuto supplire ai genitori nella DAD. Questo ha permesso un riavvicinamento emotivo verso i nipoti, magari in fase preadolescenziale e la riacquisizione di una immagine di sé migliore.